domenica 22 giugno 2025

QUANDO CHURCHILL INVIÒ UN COMMANDO PER DISTRUGGERE L' ACQUEDOTTO PUGLIESE

Colossus, Little Fortune e italiani brava gente nel primo “raid” dei diavoli rossi

 di Oreste Mottola 

Nel 1941 paracadutisti alleati si lanciarono sull'Italia nell'operazione Colossus: il sabotaggio di un acquedotto vitale per i porti strategici delle Puglie.

Il commando dell' Operazione Colossus
(Fonte Wikipedia)


I pericolosi commandos inglesi lanciati all'assalto dell'appena inaugurato ed ingigantito acquedotto del Sele furono catturati da un gruppo di carabinieri che si muovevano in bicicletta dopo essere stati scoperti da alcuni contadini di Calabritto e Castelnuovo di Conza che li avevano scambiati per ladri di bestiame. E' il febbraio 1941, quando nella notte aerei nemici sorvolarono i cieli dell’Italia meridionale, colpiscono con le loro bombe obiettivi secondari, di poco conto, nelle Puglie e nei pressi di Avellino. Sembra una missione priva di senso; un errore di valutazione, si penserà all'alto comando; ma non è niente di tutto ciò. Quella di una coppia di bombardieri sganciatisi dal gruppo principale era solo un’operazione diversiva per confondere le acque mentre nei cieli della Lucania un raggruppamento di commandos si lanciava con un solo e unico obiettivo: distruggere l’Acquedotto Pugliese e minare le risorse idriche di un’intera regione strategica in quello che diverrà noto come “il ventre molle dell’Europa”, secondo Churchill e i suoi delfini del Soe. Colpire ovunque si possa per minare il morale dell’avversario, senza risparmiare i colpi più bassi nella ricerca della vittoria a tutti i costi; sarà quella d'ora in avanti la missione dei commandos. I militari dopo aver colpito l'acquedotto del Sele, rivelatosi più robusto del previsto, dovevano percorrere il corso del fiume fino ad arrivare a Foce Sele, dove c'era un sommergibile inglese che li avrebbe portati a Malta. L'azione, come si è detto fallisce, ed uno sparuto gruppetto di contadini irpini e carabinieri appiedati, in pochi minuti blocca i commandos tra l'altro rafforzati da antifascisti italiani esuli a Londra. 

È per dare inizio a questo progetto che una squadra di sabotatori composta da membri dello Special Air Service e dei Royal Engineers, si è lanciata da bombardieri Whitley nei pressi di un viadotto eretto sul torrente Tragino, al confine tra Campania e Basilicata. Devono minare la struttura, farla saltare in aria, e così privare dei rifornimenti d'acqua dolce i porti strategici di Taranto, Brindisi e Bari. L'Operazione prende il nome in codice di "Colossus" e l'unità mista che si è unità nella cosiddetta "X Troop": prima formazione militare britannica a prendere parte in un'azione militare lanciandosi con il paracadute.

Una volta portata a termine la missione - basata su informazioni acquisite tramite una ditta privata che aveva collaborato alla costruzione di questa opera idrica straordinaria per la sua epoca, la George Kent & Sons - i commandos si sarebbero ritirati verso la costa, puntando la foce del fiume Sele dove cinque giorni dopo un sottomarino, l'Hms Triumph, li avrebbe prelevati da Foce Sele per portarli a Malta. I soldati però non vi arriveranno mai costringendo la nave ad una precipitosa fuga nell'isola fortezza dalla quale erano partiti con particolari dotazioni che faranno scuola. È infatti questo uno dei primi raid di commando operati dietro le linee che indusse Londra a prendere necessarie accortezze per i suoi soldati, come la dotarli di valuta locale, 50mila lire cucite nei colletti della camicia, e mappe dell'Italia stampate su foulard di seta cucite nelle fodere delle maniche delle loro battle dress. Le stesse accortezze verranno prese per i piloti inviati in missione sui territori occupati. Piloti di bombardieri, da caccia, o degli aerei che trasportavano le spie proprio per il Soe.

Una mera missione di disturbo

Tanto vale chiarire subito che la missione, di indubbia audacia, a maggior ragione perché i parà si lanciarono dalla temeraria altitudine di soli 120 metri, si concluderà in un fallimento abbastanza eclatante: con un gruppo di paracadutisti lanciati fuori la zona designata; la perdita di buona parte dell'esplosivo e dell'equipaggiamento lanciato negli appositi contenitori; l'amara scoperta che il viadotto del Tragino, "fiume “nascosto” della Puglia, lungo ben 244 chilometri "era stato eretto dove serviva in solido cemento armato; e con la cattura di tutti commandos inglesi, che nel corso dell'azione senza esito - i danni all'acquedotto furono limitati - uccisero due civili italiani armati. Si annoti inoltre che, a causa di avaria/danno ai motori, uno dei bombardieri inglesi comunicò via radio di tentare un ammaraggio proprio nei pressi del punto scelto per il rendez-vous che avrebbe portato a termine l'esfiltrazione del commando. Per tale ragione, la missione di recupero del sottomarino venne annullata dato il rischio che la segretezza della missione fosse stata compromesso. O oltre ai commandos venisse catturato anche il sottomarino.

Questa storia di guerra, nonostante illustri il preludio di tutte le operazioni aviotrasportate condotte dagli Alleati nel corso dell'intero conflitto, è comunque un pretesto per raccontare la vicenda dell'idealista Fortunato Picchi, Little Fortune, come lo chiamavano gli inglesi, e la condotta onorevole del generale Nicola Bellomo; che dopo essersi fatto consegnare come segno di resa la pistola dell'ufficiale inglese più alto in grado, una Colt M1903 "pocket", mise sotto la sua protezione i 35 prigionieri che rischiavano d'essere linciati da una folla dei civili inferociti che invocavano un'esecuzione sommaria, da consumare all'istante, per vendetta. Il possesso di quella pistola, tenuta come particolare arma d'ordinanza, tornerà bruscamente nella storia del generale del Regio Esercito, che sarà fucilato dagli stessi inglesi nel 1945.

Lo chiamavano Little Fortune

Quando il controspionaggio italiano interrogherà gli inglesi catturati, un uomo meno giovane degli altri balzerà subito all'occhio. Si era spacciato per francese, ma rispondeva in vero al nome di Fortunato Picchi. Gli inglesi però lo chiamavano "Little Fortune", era veterano della Grande Guerra, ed un esule antifascista che si era trasferito a Londra, dove lo si poteva incontrare nello splendido Hotel Savoy, impegnato a ricoprire il ruolo di responsabile di sala durante i banchetti. Internato in Canada come tutti gli italiani allo scoppio della guerra, Picchi era stato "rivalutato" dallo Special Operation Executive impegnato a formare delle cellule di "inglesi d'importazione" che potessero operare dietro le linee grazie alla loro padronanza della lingua parlata dal nemico.

Little Fortune, narrato come un "mite cameriere quarantenne" non ci pensò due volte ad arruolarsi nelle nuove forze speciali inglesi, sentendosi "più inglese degli inglesi", come scriveranno nel suo dossier di valutazione i cacciatori di teste del Soe. Tuttavia, per quanto lui potesse sentirsi inglese, restava pur sempre un italiano, tra l'altro attempato, con un uniforme nemica indosso. Per il controspionaggio è semplicemente un traditore, e come tale deve finire davanti a un plotone d'esecuzione.

Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato lo vedrà infatti colpevole di "tradimento e connivenza con il nemico", condannandolo a morte. La pena verrà eseguita il 6 aprile dello stesso anno presso il Forte Bravetta di Roma. Nella lettera indirizzata alla madre, Picchi scriverà: “Mi dispiace cara mamma per voi e per tutti .. di morire non mi importa gran cosa, della mia azione mi pento perché proprio io che ho voluto sempre bene al mio Paese debbo oggi essere riconosciuto come un traditore. Eppure io in coscienza non penso così". A margine della lettera, un semplice "Viva l'Italia" anticiperà di molto l'epilogo degli ultimi pensieri strazianti di tanti uomini destinati all'esecuzione per aver cospirato contro il potere vigente. Little Fortune, come altri, non troverà sepoltura.

Le spoglie perdute, il ricordo svanito per anni. Saranno il tempo e il cambiare del vento a dare ragione all'atto di coraggio di un cameriere tranquillo, che poteva restarsene in disparte. Rendendolo un patriota della Repubblica e della Corona.

giovedì 12 giugno 2025

PAESTUM, CARTE A POSTO ED IMBROGLI IN QUANTITA', LA TRATTATIVA DI MARIO NAPOLI CON L'USCIERE DEL MINISTERO.

di _© Oreste Mottola




Gli abusivi di Paestum riempirono di lettere minatorie il grande archeologo e Soprintendente Mario Napoli. 

Una in particolare entrava nei dettagli: "Il tempio di Nettuno salterà in aria quano oserete demolire la prima villetta di Paestum". 

Erano i tempi che un film, "Gli Esecutori", faceva vedere i templi pestani che saltavano in aria con le auto bomba.

 La legge che ha imposto il blocco delle costruzoni per un chilometro intorno all'area archeologica di Paestum è del 1957, la "Zanotti Bianco", ma per molti anni qui non non fu presa sul serio e regolamenti di attuazione - le Regioni che avrebbero dovuto essere istituite- e comitati vari fu legalmente disattesa. Intorno al 1970 si cominciò a capire che così non si poteva continuare ad andare avanti. 

Un piccolo e coraggioso sindaco di Capaccio, Luigi Gorga, cominciò a rilasciare interviste dove chiedeva l'ausilio dell'Esercito contro gli abusivi. Alcuni articoli fecero paura ed alcuni costruttori si cominciarono ad impaurire ed eccoli a reagire, a modo loro, certo, ma cominciarono a dimostrare inquietudine. Si sentivano "toccati" ed eccoli ad inondare di messaggi quello che da subito individuarono come il loro principale avversario, lo scopritore della tomba del "Tuffatore", l'archeologo Mario Napoli, bello come un attore hollywoodiano, straordinario comunicatore. 


Di fronte alla minaccia diretta al Nettuno, il professore Napoli contattò il Ministero a Roma e chiese udienza al Ministro in carica. Nell'estate italiana del Settanta di aperto non c'era nulla. Perfino i governi, qualcuno se ne ricorderà erano "balneari", guidati da un ras democristiano di media caratura. Mario Napoli, scopritore anche della Porta Rosa  a Velia, non era il tipo da arrendersi, e tanto tempestò di telegrammi il Ministero a Roma, che furono costretti a convocarlo in fretta e furia. A Roma, però a riceverlo, delegarono un semplice usciere. 

"Professore lei è a posto perchè è andato a denunciare alle competenti autorità. Se ne torni a casa, dove peraltro è già in vacanza, e si scelga la spiaggia migliore e ci resti fino all'autunno...".

 Proverbiale, e ricordata fino ad oggi, è la sua risposta:

 "Le carte, e forse anche io, sarò a posto, ma io sono davvero preoccupato per il tempio di Nettuno".

Il prof. scacciò il pensiero per via dell'offesa che gli avevano perpetrato facendolo ricevere da un semplice usciere. Poi, ricorrendo alla sua straordinaria cultura classica pensò che quell'uomo, apparentemente semplice, esprimeva duemila anni di quella cultura di governo che aveva digerito le invasioni barbariche, il Fascismo, papi ed imperatori. 

Si! Bastava davvero che le carte fossero apparentemente a posto, e che un altro mezzo secolo di armistizio tra costruttori e Stato, avrebbe garantito altri estati tranquille. E così è stato. 


Oreste Mottola, giornalista, scrittore 

lunedì 2 giugno 2025

CAPACCIO... PERCHÉ CAPACCIO?

 



Nei documenti antichi è spesso denominata "Caputacii". Ma troviamo anche altre varianti: "Capuaccio" (Catalogus Baronum, 1150), nel Codex Diplomaticus Cavensis in diversi modi tra cui "Capacii" (genitivo), nei documenti delle cancellerie normanna, angioina ed aragonese anche "Capuacium" o "Caputaquem".

Non deve sorprenderci questa differenza di denominazioni di uno stesso luogo fra documenti di età storica diversa o addirittura coevi. 

Questo perché la lingua parlata, di cui quella scritta è un riflesso cristallizzato, è sempre in continua evoluzione, così come è anche vero che nel medioevo, ma più in generale nell'antichità, i nomi, come i toponimi, non erano “stabili” e “convenzionalmente fissi” come oggi.

Su come si sia arrivati all' attuale Capaccio e sulla sua origine, si è scritto molto. Ma basta dare già una occhiata alle varianti antiche del toponimo, a cui ho accennato in precedenza, ed ad un dato di fatto, la diffusione del toponimo “Capaccio”  in tutta Italia, per capirne l'origine.

Il primo a farne l'etimologia è Philipp Clüver o Cluverio (Danzica, 1580 – Leida, 31 dicembre 1622), un erudito, oggi considerato il padre della geografia storica.

Personaggio interessante, che fu anche soldato di ventura, che intraprese lunghissimi viaggi in tutta Europa, visitando persino Capaccio, di cui parla in più di una occasione nella sua opera “Italia Antiqua”, pubblicata postuma nel 1624.

Il Cluverio propone che il toponimo Capaccio derivi dal nome del monte su cui sorgeva l'antica città medievale di Caputaquis: Calamarco, Calamazio, Calpazio, Capatium e dunque Capaccio.


Ma questa è una tesi erudita, messa già in discussione nel settecento da Giuseppe Antonini, il quale riteneva che invece derivasse da Caput Aquae.

Il caput aquae per i latini è la fonte in cui nasce un corso d'acqua o dove inizia un acquedotto di una città.

Sappiamo, che di monti denominati Calpazio ve ne è uno solo, mentre di Capaccio ne esistono diverse in tutta Italia. Un esempio noto è Via Capaccio a Firenze, dove l'edonomimo, o nome di via, è generalmente fatto derivare dal caput aquae dell'antico acquedotto romano, lì situato, che serviva la città.

Gli studiosi contemporanei optano per l'ipotesi che Capaccio nasca come toponimo identificante lo specchio d'acqua, con le sue numerose sorgive, da cui si origina il fiume modernamente detto Capodifiume. Nome poi traslatosi, come Caputaquis, all'insediamento sorto sul Monte Calpazio. Aspra collina, notoriamente priva d'acqua, tanto che i suoi abitanti dovettero ricorrere a cisterne alimentate dall'acqua piovana.

L'Antonini, però, immagina una particolare variante dell'origine del paleonimo.

Egli, infatti, ritiene che derivi da caput aquae, inteso però come capo dell'antico acquedotto che serviva la città di Paestum.

Scrive infatti nella sua “Lucania, discorsi” (pag. 256, Napoli, 1745):

“L'è venuto il nome di Capaccio da Caputaquae, luogo poco distante dal paese, dove cominciano gli acquedotti, che l'acqua di buona qualità in Pesto conducevano. Vengosi ancora questi sulla strada, onde vassi a Trentinara”.


L'Antonini, però è per questa sua particolare ipotesi fortemente criticato dal Magnoni, altro erudito settecentesco, che propende invece per quella del Cluverio, anche se ritiene possibile quella per cui Capaccio deriverebbe invece da Caputaquae, ma non nel modo in cui l'Antonini la intende. 

Infatti nella sua “Lettera di Pasquale Magnoni al barone Giuseppe Antonini ...” (pag. 30, Napoli, 1763),  scrive:

“...Ed in vero questa opinione è assai più probabile della comune e cioè di aver Capaccio preso il nome dal vicino Capo di Fiume, e tantoppiù della vostra che lo vuole fatto da un luogo sulla strada, che va da Capaccio nuovo a Trentenara, appunto dove si dice Capo d'acqua. 

Questo luogo io non lo so, ma voglio credervi per un poco, che vi sia. 

Or ditemi non fu la Città sul monte dalla parte di Occidente da Pestani dopo la distruzione della loro Città edificata, la prima, che fu nominata Capaccio, ed ora Capaccio vecchio dicesi?

Questa, come Voi sapete è più di due miglia lontana da Capaccio nuovo verso Occidente, e fu del monte; all'incontro il luogo, che Voi volete chiamato Capo d'acqua, è distante qualche tratto ancora da Capaccio nuovo verso Oriente alla volta di Trentenara .

Sicchè come potea Capaccio vecchio che fu il primo anche ad essere cosi detto, ricevere questo nome da un luogo, che gli era piucchè tre miglia lontano?

Bisogna meglio riflettere. 

Dissi bene, che qualora non valesse l'opinione del Cluverio, più verisimile sembrar deve quella di essere Capaccio cosi detto da Capo di Fiume, che forse vale lo stesso, che Capo d'acqua; perocchè questo luogo è immediatamente sotto il monte, ove fu la Città da' Pestani edificata, e Capaccio la prima volta chiamata e perciò distinta ora dall'altro coll'aggiuntivo di vecchio.”


In realtà l'Antonini aveva ragione ed il Magnoni torto.

Infatti da un documento del 1913 apprendiamo che l'approvvigionamento di acqua dell'allora nuovo acquedotto cittadino che serviva il Capoluogo avveniva da delle fonti, acquisite dal Comune di Capaccio nel territorio di quello di Trentinara, denominate "Capodacqua, Vernaglia ed Ospedale". Tutt'ora esiste Via Capodacqua ad indicare quel luogo sulle colline di Trentinara.

Le fonti sotto il Calpazio sono quindi il caput aquae del Capodifiume, quelle di Vesole sono il caput aquae dell'acquedotto.

Altro aspetto interessante, fatto già notare dal professore Mello, è che le fonti del Capodifiume siano generalmente indicate con il toponimo “Caput Aquae”, con la desinenza latina al genitivo, cioè come a dire il capo o la fonte delle acque, mentre l'antica città sul Calpazio,invece, era spesso detta “Caputaquis”, con la desinenza in ablativo, come a dire, mia ipotesi,  “la sommità o la cima sulle acque”.

Difatti sia il nome stesso del Monte Calpazio, che la sua dizione antica di Calamatio, secondo alcune teorie in ambito toponomastico, rimandano nella loro etimologia all'idea di altura (Calamatio, Cala=rilievo + Mat= collina; Calpazio, Cala= rilievo + Alp= monte).

È anche vero che nei documenti medievali, come quelli cavensi, il Capodifiume era detto Atium o Accium, cioè Accio, da cui per alcuni, come Vincenzo Rubini, le diverse versioni del toponimo ricorrenti nei documenti delle cancellerie normanne ed angioine o nelle carte cavensi, dai quali si sarebbe originato il paleonimo Capaccio: Caputatium, Caputaccium, Capuaccio.

Quindi seguendo il mio precedente ragionamento, se il paleonimo Capaccio, come Caputaquae, pare essere collegato alle acque del Capodifiume, quello di Capaccio, come Caputaquis, potremmo ipotizzare che invece sia legato all'altura su cui la città sorse.

Ah! Ve lo avevo già detto, ma esistono 5 Capaccio…

la prima Capaccio, intesa come Caputaquae, è lo specchio d'acqua da cui parte il Capodifiume, nei cui pressi, sorgeva un abitato, che già nel X secolo era detto “Casavetere di Capaccio”.

La seconda Capaccio, sempre intesa come Caputaquae, è il caput aquae dell'antico acquedotto sul Monte Vesole.

La terza Capaccio, è la città medievale di Caputaquis sul Monte Calpazio.

La quarta Capaccio, è l'attuale Capaccio Paese, prima detta Casali Rodiliani o Casali di San Pietro di Rodigliano, che comincerà a chiamarsi Capaccio (Nuova) solo verso la fine del quattrocento, quando lo spopolamento di Caputaquis era ormai un fatto compiuto.

La quinta Capaccio è l'attuale cittadina di Capaccio Scalo, in piana, sviluppatasi con la riforma fondiaria e negli anni successivi.





Immagine: 

1- Capaccio Vecchia dal "Regno Napolitano anotomizzato" (1708) di Cassiano da Silva.

2- Le fonti del Capodifiume di Michele Tesauro - Gigapix - On Explore - 31 Genn. 2009 h.p. # 19 © All rights reserved

LA PIÙ ANTICA RAFFIGURAZIONE DELLA MADONNA DEL GRANATO DI CAPACCIO VECCHIA?

 



Quella che vediamo è la tomba di Tommaso Santomango, vescovo di Capaccio, morto nel 1382 ed appartenente ad una nobile famiglia salernitana.

La tomba è collocata nella parete meridionale del transetto, verso l’abside minore, della Cattedrale di San Matteo a Salerno.

Per noi è una traccia importante che potrebbe indicare l'antichità del culto della Madonna col melograno a Capaccio. 

Nel sarcofago in pietra, infatti, è raffigurata una Madonna con bambino e melograno.

Sappiamo, però,  che l'intitolazione più antica del Santuario mariano di Capaccio Vecchia era quella di Santa Maria Maggiore, come anche che la Madonna nell'antica cattedrale sul Monte Calpazio è festeggiata da sempre il 15 di agosto. 

Quindi la Madonna a cui è dedicata la chiesa medievale di Capaccio Vecchia è l'Assunta, mentre il melograno è un simbolo tradizionalmente proprio della Madonna delle Grazie, di cui un esempio famoso è la Madonna della Melagrana del Botticelli. 

L'attuale statua lignea della Madonna del Granato in Capaccio Vecchia,  copia di un originale probabilmente quattrocentesco andato distrutto in un incendio,  è una Madonna delle Grazie in trono.

Il compianto Vincenzo Rubini, noto cultore di storia locale, in una sua pubblicazione sull'argomento (1), ipotizzava che la statua originale della Madonna del Meligrano fosse di scuola senese.

Maestranze senesi furono molto attive proprio nel quattrocento nel Regno di Napoli, cosa che avvalorerebbe tale ipotesi. 


Le raffigurazioni delle Madonne col Melograno non erano però una esclusività Toscana, ve ne sono diverse altrettanto antiche in tutta l'Italia Meridionale. 

La presenza di una Madonna con melograno proprio sulla tomba trecentesca di un vescovo di Capaccio apre nuove ed interessanti prospettive e quindi può aprirci nuove ipotesi di studio.

Se sei interessato ad approfondire puoi leggere anche

LA MADONNA DEL GRANATO (ISIDE, HERA) E LE SUE SEI SORELLE

Nota

1- Vincenzo Rubini, La Madonna con la melagrana nel Santuario di Capaccio Vecchia.