venerdì 8 marzo 2024

La Piana di Capaccio Paestum in età medievale



Una presunta carta aragonese, XV sec..

Diversamente  da quanto molti ancora oggi credono la Piana di Capaccio Paestum fu intensamente abitata ed economicamente sfruttata sino agli inizi dell'età moderna (almeno secondo i canoni del tempo), quando con la Guerra del Vespro prima e poi con altre guerre successive, le incursioni dei berberi del Nord Africa, epidemie e carestie, l'intero tessuto economico ed insediativo fu spazzato via con il conseguente impaludamento di vaste zone precedentemente abitate e messe a coltura. 


Infatti sul Capodifiume e sul Solofrone già in epoca alto medievale vi erano numerosi mulini, indice di una notevole produzione di cereali, che poi attraverso l'approdo di Torre di Paestum e dei diversi porti fluviali sul Sele, prendevano la via di Salerno, Napoli e della Costiera Amalfitana, dove i mercanti atranesi ed amalfitani li commercializzavano in tutto il Mediterraneo, specie verso il Nord Africa. 


Altro bene commerciale nostrano che trovava spazio in un ambito internazionale sempre attraverso la mediazione degli amalfitani era il legname proveniente dalle zone interne.

Bene considerato di grosso pregio e valore.


Non mancavano poi villaggi e casali che ritroviamo citati nei documenti d'epoca, quali Gromola, S. Basilio, Spinazzo, S. Barbara, Casavetere di Capaccio (Capodifiume), Silifone e Mercatello.


In particolare è interessante la dizione di "castrum" con cui sono citati alcuni di questi insediamenti nei documenti cavensi. 


La notizia ce la fornisce il Ventimiglia nel suo "Notizie storiche del Castello dell'Abate...", dove cita "Spinacium, castrum apud Capuacum", S. Barbara e "S. Nicolaus, castrum ultras fluvium Silarum" (cioè Mercatello sul Sele).

Da precisare che con "castrum" nel tempo e nei luoghi si sono intese cose assai diverse, ma accomunate dal concetto di luogo difeso.

Si va quindi dal castello, al villaggio fortificato, sino ad una costruzione non necessariamente militare fortificata come una torre, un mastio o anche una masseria.

Ciò, se fosse ulteriormente confermato ci darebbe un quadro diverso del sistema di difesa del territorio che non si esauriva nei due castelli di Caputaquae e di Agropoli o nelle torri costiere.


Dovremmo, poi, aggiungere un ulteriore tassello al quadro da noi sommariamente delineato, cioè la presenza nell'attuale Barizzo di una fortificazione, costituita da almeno un mastio, di cui alcuni suoi elementi strutturali, nel suo rifacimento cinquecentesco, sono ancor oggi visibili nell'architettura della villa di scuola vanvitelliana dei Principi Doria d'Angri: le sue mura perimetrali inclinate e spesse 2.2 metri e la cisterna centrale alimentata da una fonte d'acqua.

Abbiamo quindi dei "villaggi fortificati" e numerosi casali.

Chiaramente dobbiamo intenderci su cosa si intende per villaggi e casali.

Un villaggio era un centro abitato di modeste dimensioni, spesso legato ad una proprietà signorile o ecclesiastica. 

Così gli abitanti del villaggio di Spinazzo erano a servizio delle attività di coltivazione ed allevamento del signore di Spinazzo, quella della Domus Sancti Cesarii (cioè San Cesario di Capaccio, oggi nel territorio di Albanella) e della Domus Caratelli (oggi nel territorio del Comune di Roccadaspide, ma allora in quello di Capaccio) delle "grangie" dell'ordine degli Ospidalieri di S. Giovanni (oggi comunemente detti " Cavalieri di Malta").

I casali invece erano aggregati di poche case spesso caratterizzati tra nessi di parentela degli abitanti. 

Degli esempio a Capaccio sono la ormai disabitata "Case Paolino" e "Case Picilli" in zona Cannito, ma ne abbiamo diversi esempi ancora "vivi" in Roccadaspide, come "Case Cavallo", "Case De Rosa", "Case Cammarano ", "Case Conforti", ecc..


Case Picilli, località Cannito, Capaccio.


Quindi vi era una rete di piccoli e medi insediamenti diffusi nella piana pestana, sulle tempe e colline che gravitano intorno al centro abitato maggiore, Caputaquis, cioè Capaccio "Vecchia", città fortificata, con un castello, sede di un vescovato, del Conte e del Gastaldo in età longobarda e poi città del demanio regio in quella Sveva.

Venuto meno questo tessuto economico, sociale ed insediativo, cominciò anche il declino della città di Caputaquis/Capuacium, con un lento ma inesorabile spopolamento a favore di realtà urbane vicine come Roccadaspide, Altavilla, Albanella e Rodigliano (che da allora sarà detta Capaccio Nuova ed oggi "CapaccioCapoluogo" o "Paese"). 

Spopolamento che si conclude agli inizi del XVI secolo quando ormai l'antica città secondo una platea cinquecentesca della Chiesa di S. Pietro di Capaccio risulterà abitata ancora da pochissime famiglie.



mercoledì 24 novembre 2021

LA CHIESA DELLA SS. ANNUNZIATA DI PAESTUM, LA SUA STORIA TRA IPOTESI E REALTÀ.

 


Questa chiesa è un piccolo tesoro storico ed architettonico, che purtroppo subisce l'ombra dei vicini templi greci.

È la più antica chiesa di Capaccio Paestum ed anche la più antica nell'intera diocesi tra quelle che svolsero la funzione di cattedrale.

Le sue origini non sono ancora oggi ben chiare e gli studiosi non possono che proporre che delle mere ipotesi.

Sappiamo che sorge sicuramente dopo l'editto di Costantino (313 d. C.) che permise la libertà di culto per i cristiani. Infatti non pochi studiosi hanno ipotizzato che il primo tempio cristiano in Paestum sia stato quello “pagano”, che comunemente chiamiamo di Cerere, cioè l’Athenaion.

Così scrive il prof. Paolo Peduto, medievista, in “Decadenza e Rinascita”:

“Dentro  le  mura  il  vescovo  aveva  il  suo  palazzo e, sistemato per quanto poté l’antico  Athenaion a chiesa cristiana, eresse non lontano la nuova  basilica dedicata  alla SS. Annunziata.

La sua diocesi si estendeva tra i fiumi Sele ed Alento e tra il mare e i Monti Alburni: tra la fertile pianura e i monti ricoperti di boschi. 

Il nemico ora non erano le bande armate, ma il Salso, fiume che assediava  la  città e tutto incrostava depositando calcare. 

Gli ambienti degli edifici addossati al tempio stesso si scorgono nell’unico disegno realizzato dagli scavatori degli anni Cinquanta: essi furono interpretati allora come una grande casa rurale, una fattoria, mentre  e  non  solo per  la  disposizione  topografica,  si  trattava  di  una  sorta  di  corte-quadriportico  in  cui  erano  disposti i locali dell’episcopio, così come usavano i primi vescovi che vivevano nei pressi della cattedrale alla quale accedevano direttamente dalla loro residenza.

L'imponenza della basilica cristiana ricavata nel vecchio tempio era palese, meno forse la funzionalità, perciò si rese necessario costruire una seconda cattedrale, la SS. Annunziata, cosi come accadeva negli anni a Milano, a Pavia e altrove. Sul volgere del  VI secolo la città, contratta intorno a questi due edifici, aveva il confine segnato tutto intorno da sepolcreti cristiani.”


Paestum. Planimetria dell’area antistante l’Athenaion  con i ruderi altomedievali, distrutti a partire dagli anni Trenta  del ’900 (da P. Peduto, Decadenza e rinascita)


Il sito dove poi sorse la Chiesa dell'Annunziata da risultanze archeologiche potrebbe essere stato in precedenza votato ad area sacrale.

Ce ne dà notizia Marina Annunziata Cipriani:

“...Paola Zancani da una breve notizia della scoperta, 4 metri sotto il pavimento della chiesa, di un nucleo esiguo di statuette e ceramiche prevalentemente di VI/ V sec. a. C. La studiosa pubblica la notizia in un articolo intitolato 'Piccole cose pestane', MDAIR, 1963, p. 27, attribuendo gli oggetti ad un'area di culto alle dee dell'Oltretomba. In realtà, come ho sostenuto, andrebbe valutato il rapporto di contiguità topografica con altre evidenze coeve di sacro venute in luce negli scavi di E. Greco alcuni metri a Est nello spazio marginale occidentale dell'agora.”

Comunemente nella letteratura specialistica si indica stereotipatamente la fondazione della Chiesa della SS. Annunziata intorno al V secolo d.C.. In realtà si tratta di una ipotesi, basata su mere congetture, e non vi sono evidenze reali per collocarla senza dubbio alcuno in questo periodo. Nulla toglie che possa, in realtà, essere più antica o posteriore. 

Così lo stesso Gabriele De Rosa, nel suo scritto “La Chiesa della SS. Annunziata a Paestum”, non si esime dall'ipotizzare non solo la possibile data di edificazione ma anche il suo sviluppo architettonico nel tempo:

“Intanto possiamo dire che l’antica basilica, risalente agli inizi del V secolo, era del tipo «basilica aperta», trasformata in «basilica chiusa» a fine V secolo e inizi del VI, che è la forma che oggi conosciamo. La basilica fu costruita in luogo molto vicino all’antico tempio di Cerere.”

In realtà presume lo sviluppo dell'edificio, da basilica “aperta” a “chiusa” più che da certe evidenze archeologiche da quello che fu lo sviluppo di analoghi edifici per ciò che allora dell'architettura paleocristiana si conosceva.

Così come ancora si discute tra gli studiosi se la chiesa nacque come vero e proprio edificio di culto o come mera cappella cimiteriale.

Sempre congetturando su quelle che erano le caratteristiche dell'architettura paleocristiana, si e ipotizzato tra gli studiosi, che anche la primitiva “basilica paleocristiana” pestana avesse un quadriportico, cioè un cortile di forma quadrata circondato da un porticato, nel quale i non battezzati, che non avevano accesso al vero e proprio tempio cristiano, potevano seguire parte delle funzioni sacre.

In realtà le sopravvivenze del quadriportico, ancora visibili come blocchi di colonne doriche inglobate nelle murature moderne, per alcuni studiosi possono essere ricondotte piuttosto all'ampliamento medievale. Nulla però ci impedisce di pensare che l'antico atrio paleocristiano sia stato  anch'esso rifatto in epoca normanna.

Sicuro è invece che la primitiva chiesa fosse ad un'unica navata, orientata sull'asse est-ovest, con l'abside, ad oriente, cioè dove sorge il sole, e l'ingresso ad occidente. Orientamento dai numerosi significato simbolici.

Peduto, poi, sempre in “Decadenza e Rinascita”, individua come elementi architettonici paleocristiani “i due archi della controfacciata che formavano la bifora dell’ingresso originale (V-VI sec.), la base della colonna centrale ancora visibile fino a qualche tempo fa sta ora murata sotto la soglia.”

Scrive sempre Peduto:

“Secoli dopo, tra XI e XII, la SS. Annunziata venne rinnovata secondo il modello dell’architettura desideriana che da Roma e da Montecassino influenzò la forma delle chiese della Campania  intera.”

Ciò non deve meravigliarci, perché, malgrado la più diffusa opinione comune, Paestum e la sua Piana anche nel medioevo continuarono ad essere luoghi vissuti, praticati e centrali ed economicamente importanti.

Difatti nella piana non mancavano villaggi, casali, grangie, che ritroviamo citati nei documenti d'epoca, quali  San Pietro di Rodigliano (Capaccio Capoluogo), San Cesario di Capaccio, Gromola, S. Basilio, Spinazzo, S. Barbara, Casavetere di Capaccio, Silifone e Mercatello.

Lo stesso lido di Paestum era un luogo di carico e scarico di merci trasportate via mare per tutto il Mediterraneo Occidentale ad iniziare dai legnami, provenienti dalle zone interne, sino ad arrivare ai cereali come grano ed orzo, intensamente ed estensivamente coltivati in tutta la piana.

Era dunque un epoca economicamente florida, tale da giustificare e permettere una ristrutturazione della chiesa pestana.

L'intervento effettuato sulla primitiva chiesa paleocristiana fu importante in termini quantitativi e qualitativi. La chiesa fu ampliata con due navate laterali absidate, fu innalzato il colonnato, oggi visibile, con il riutilizzo di materiali di recupero dalla città antica, come le 12 colonne in granito della Sardegna ed i capitelli corinzi.


Sono tutt'ora visibili diversi materiali di riuso, ad esempio lungo il perimetro murario esterno come  rocchi di colonne e capitelli, dove però gli interventi delle epoche successive, alterando la struttura della chiesa, ne hanno reso illegibile il ruolo decorativo e funzionale.

La chiesa era probabilmente affrescata, lo sappiamo dai frammenti superstiti tutt'ora visibili nell'abside.


Sull'aspetto della chiesa medievale sappiamo ben poco, se non per approssimazione e ne abbiamo già citato gli elementi essenziali poc'anzi.


Giuseppe Bamonte nelle sue “Antichità Pestane” del 1819 scrive che:

“Nel 1493, come rilevassi da una platea della Mensa Vescovile, oltre l'antica chiesa vi era una piccola casa attaccata, consistente in una stanza inferiore, una superiore ed un cellaro (forse quella casetta, dove ora vive l'eremita) e dippiù una casa detta cisterna”.


Sappiamo, poi, che vi fu un nuovo rifacimento della chiesa con il vescovo Ludovico Podocataro (1429-1504), umanista di nobili origini greche-cipriote, che fu anche rettore dell'Università di Padova.

È Andrea Bonito, che fu vescovo di Capaccio dal 1677 al 1684, a darcene notizia anche se probabilmente erroneamente indica come data dell'intervento il 1504. Ciò perché il Podocataro fu vescovo della diocesi caputaquense tra il 1483 ed il 1503.

Il rifacimento della chiesa, avvenuto quindi precedentemente a quella data, dovette essere di una certa importanza e rilievo se come pare vi fu un innalzamento del livello del piano del pavimento di un metro e dieci centimetri.

Ciò significa che l'impianto romanico fu pesantemente modificato, anche se non sappiamo come tale intervento abbia modificato anche il resto della chiesa, ad esempio nelle sua architettura e decorazioni. Possiamo solo immaginare che probabilmente avvenne secondo il gusto del tempo e le possibilità di spesa.

Lo stesso vescovo Bonito dovette intervenire più di un secolo e mezzo dopo con una nuova ristrutturazione della chiesa per scongiurarne un imminente crollo.

Le colonne romaniche emergenti durante il "restauro" del 1968.


Malgrado quella che sembra una situazione di degrado Paestum e la sua chiesa mantennero anche in età moderne un certo rilievo. Non solo la chiesa era il riferimento per quanti nel circondario lavoravano o vi passavano per tutto quanto atteneva il conforto spirituale e la somministrazione dei sacramenti, ma ma vi si faceva anche mercato.

Scrive infatti il vescovo Bonito in una sua relazione del maggio 1682:

“Haec (ecclesia) est sub vocabulo SS.mae Annunciationis, cuius tantum festu ibi solitaria celebratur; magno accolarum congressu et devotione et emporiis allicitorum”.

Vincenzo Rubini, compianto cultore di storia locale, in la “Coppola di don Ciccillo ed altre storie e storielle pestane”, ricorda come, oltre alla tradizionale (ancora oggi celebrata) festa dell'Annunziata del 25 marzo, anticamente ve ne fosse ancora un'altra dedicata ad un santo oggi dimenticato, San Apollonio:

"Si celebrava l'ultima domenica di maggio, richiamava un grande concorso di fedeli e coincideva con una fiera molto frequentata, tanto che tra gli obblighi dell'Università verso il feudatario, vi era quello di fornire, in quella occasione, un certo numero di uomini, per rinforzare la 'bandiera' del conte, che manteneva l'ordine e riscuoteva le tasse dei mercanti, che vi affluivano; ce ne è pervenuto un documento che si riferisce all'anno 1567”.

Entrambe le fiere, quella dell'Annunziata e quella di San Apollonio, si tenevano nello spazio contiguo la chiesa dove ora sorge il Museo di Paestum.

In una relazione del 20 marzo 1613 di Pietro de Matta y Haro, vescovo di Capaccio dal 1611 al 1627, si legge che i vescovi della diocesi caputaquense, benché la sede vescovile non fosse più in Paestum, continuarono a tenere personalmente in questa chiesa pestana nel giorno dell’Annunziata una solenne celebrazione.

Sempre il Rubini, poi, cita Michele Zappulli, che abitò a Capaccio sino al 1566 e per questo testimone diretto, che nella sua “Istoria di Napoli” ricorda la Chiesa Cattedrale di Paestum “dove i diocesani rendono ubbidienza al loro vescovo oggi detto di Capaccio”.

 Scrivo di tutto ciò per riequilibrare una narrazione storica che descrive con toni assolutamente negativi la realtà economica, sociale ed umana del territorio di Capaccio Paestum e più in particolare di Paestum e della sua piana.

Il quattrocento fu un secolo terrificante per tutto il sud della provincia di Salerno ed in particolare per il nostro territorio. La Guerra del Vespro prima, poi quelle successive che videro contrapposti ancora aragonesi ed angioini, baroni e sovrani, le susseguenti carestie ed epidemie, portarono alla distruzione di quella rete di villaggi, casali, grange e masserie che avevano permesso la rinascita economica medievale e la tenuta del territorio con opere di drenaggio e canalizzazione delle acque. 

Il risultato finale fu, diminuita l'opera fattiva dell'uomo, un aumento del territorio acquitrinoso e paludoso. Al contempo si diffusero quelle che una volta erano dette febbri terzane e quartane, cioè la malaria. 

La crisi quattrocentesca porta come conseguenza inevitabile la perdita del ruolo baricentrico della città di Caputaquis sul Monte Calpazio rispetto ad una piana non più popolata stabilmente e l'inizio del suo spopolamento, che a fine secolo può dirsi completato.

Quindi la diocesi di Capaccio era particolarmente disagiata per i vescovi del tempo, perché la cattedrale, detta di Santa Maria Maggiore, a Capaccio Vecchio dal cinquecento era solitaria in una città ormai deserta ed in rovina, la concattedrale, la Chiesa dell'Annunziata, a Paestum, anch'essa in una città diruta.

Così inevitabilmente i vescovi dovevano giustificare il loro venir meno all'obbligo sancito dal Concilio di Trento di residenza nella propria sede vescovile. Provvedimento allora preso per combattere il malcostume dei vescovi assenteisti, che delegavano le proprie funzioni a vicari, per spendere le rendite e condurre una vita agiata nei centri più importanti, popolosi e ricchi d'attrative.

Ciò determinò, come scrive il vescovo Morello in una sua relazione ad limina, che i suoi predecessori, siamo alla fine del cinquecento, risiedessero a Salerno o “in aliquo loco Dioecesis ubi sibi placet”.

Ed è proprio con il vescovo Morello, che la sede della diocesi, con il placet di Papa Sisto V, sarà spostata a Diano, l'attuale Teggiano, investendone la cittadina di tutte le prerogative relative, pur mantenendo la diocesi il titolo di “Caputaquense”.

Inevitabile, quindi, la perdita d'importanza delle due vecchie cattedrali, quella di Capaccio Vecchio e quella di Paestum, con un sempre crescente disinteresse delle autorità vescovili, con importanti eccezioni, tanto che, per l'appunto, andarono gradatamente in rovina, necessitando così nel tempo di diversi ed urgenti interventi di recupero.

Strana poi la narrazione del De Rosa nella sua opera sulla Chiesa dell'Annunziata, dove apparentemente attribuisce le descrizioni delle genti e dell'ambiente nelle relazioni ad limina dei vescovi caputaquensi, assolutamente negative e di rara crudezza, al solo territorio capaccese, quando esse erano invece relative all'intera diocesi.


Estratto di una veduta settecentesca di Paestum, che mostra la Chiesa dell'Annunziata con il palazzetto vescovile.


Ma torniamo alla storia della nostra chiesa in Paestum.

Dalla relazione del giugno 1630 del vescovo Francesco Maria Brancaccio si apprende che nella chiesa pestana vi era un solo altare e che era senza campanile nè campane. Inoltre aveva provveduto alle necessarie riparazioni, aggiunto una camera e rifatto la copertura della chiesa.

Da quella del vescovo Bonito del 1682 vi è notizia che la chiesa è frequentata da fedeli, anche se il luogo ormai è insalubre ed addirittura infestato da serpenti. Anch'egli, a sue spese, interviene per effettuare delle riparazioni.

Ma è nel settecento che la Chiesa dell'Annunziata subirà un nuovo recupero, che più che un restauro può essere definita una vera è propria riedificazione per la mole degli interventi realizzati.

Scrive Gabriele De Rosa:

“Con il vescovo Agostino Odoardi abbiamo il vero restauratore della chiesa pestana, colui che ad essa diede l’impronta dello stile del secolo. 

L’Odoardi scriveva nel 1729 informando che a Paestum non esisteva cattedrale, ma solo una chiesa antica oramai decaduta, priva di ogni suppellettile sacra, al punto che si poteva chiamare « profanus locus », e che egli aveva rifatta dalle fondamenta.

 Quando l’Odoardi divenne vescovo di Capaccio (14 febbraio 1724), dunque, la chiesa pestana era sfiancata, « prae vetustate fere collapsa »: egli la rimise su dandole una forma poco rispettosa dell’antica struttura e che tale rimase sino a qualche anno fa. 

Cinque anni dopo, in altra relazione ad limina l’Odoardi si dilungò sullo stato della Chiesa pestana: a che cosa si era ridotta e quanto egli avesse operato per restaurarla. 

… Al suo arrivo la cattedrale di Paestum assomigliava più a una stalla, a una spelonca di predoni, che a una casa di Dio. Tuttavia, di una chiesa vi sarebbe stato bisogno in quella zona, popolata di coloni e da numerosi custodi d’armenti che affluivano da varie regioni per ascoltare la parola di Dio, la messa nei giorni festivi, e per ricevere i sacramenti.”

Inoltre:

“L’Odoardi curò che fosse costruito un cimitero che mancava e ornò la sacrestia di paramenti sacri con due calici d’argento, mise due campane nel nuovo campanile, che purtroppo nel recente restauro è andato distrutto, infine la dotò di duemila ducati, ne affidò la manutenzione al regale monastero di S. Severino dell’ordine di S. Benedetto, congregazione cassinense”.


Tra l'altro rialzò il piano di calpestio della chiesa di ulteriori settanta centimetri, portandolo al livello di  quello esterno alla chiesa. 

Scrive il Bamonte a proposito del restauro voluto dal vescovo Odoardi, che:

“Gli artefici nel rimodernarla in assenza del vescovo commisero grave sbaglio, perché covrirono con fabbrica le colonne di granito orientale, che sostenevano gli archi delle navi, in luogo delle quali oggi veggonsi dei pilastri; anzi due colonne furono affatto tolte, e giacciono buttate davanti la porta della cattedrale”. 

In realtà “l'assenza” del vescovo Odoardi era dalle sue funzioni. 

Egli infatti risiedeva stabilmente a Capaccio, ma a causa di un “male alle ginocchia” era impedito a svolgere pienamente il suo ruolo, tanto che dovette chiedere ad Angelo Anzisi, Vescovo di Eboli e Satriano, di realizzare al suo posto la visita pastorale del 1738 nella sua diocesi.

Aggiunge poi il De Rosa che in “una memoria unita alla relazione dell’Anzisi il vescovo di Capaccio è descritto peraltro come uomo che conduceva vita monastica, più che di pastore e prelato di Chiesa".


La Chiesa della SS. Annunziata di Paestum in versione  barocca.


Odoardi, quindi, fece della Chiesa dell'Annunziata, una chiesa in stile barocco, sia nella struttura che nelle decorazioni interne che esterne. La finestra ad arco dell'abside, oggi invece aperta, venne murata e sopra l'altare inserita un'edicola con la statua della Madonna dell'Annunziata, a cui l'altare maggiore era dedicato. 

Nella navata di sinistra fu realizzata una cappella con l'altare dedicato a San Michele Arcangelo. Culto, quello del Sant'Arcangelo, antichissimo, di cui le prime notizie a Capaccio risalgono all'XI secolo, quando è attestata nel Codex Diplomaticus Cavensis l'esistenza di un chiesa rupestre sul Monte Soprano in località Velanzano (cioè nelle vicinanze dell'attuale Rodigliano) retta allora da un abate. Cosa che fa supporre l'esistenza di una comunità monastica. È possibile, quindi, ipotizzare, che il Vescovo Odoardi, realizzando tale cappella, abbia voluto dare continuità ad un antica tradizione cultuale.

Nella navata di destra fu realizzata, invece, una cappella senza altare dedicata all'Addolorata.

Di tali innovazioni ce ne dà ancora notizia il Vescovo Anzisi.

Sempre sulla navata di destra vi era il pulpito ligneo per le prediche.

Pietro Antonio Raimondi, vescovo di Capaccio tra il 1742 ed il 1768, completò l'opera del suo predecessore abbellendo a sue spese la chiesa con marmi e ornamenti per l’altare maggiore. Proprio sul finemente intarsiato altare marmoreo vi era riprodotto lo stemma episcopale del Raimondi, mentre è ancora visibile l'altro sulla facciata esterna della chiesa.

Inoltre edificò anche il “palatiolum” barocco accanto alla chiesa che il Vescovo Filippo Speranza nella sua relazione del 1821 definisce “elegante”:

“...mea residentia peragiter in hac civitate Novii, et quandoque in illis Caputaquen novi, Salae et meo Palatio Paestano, alii cathedrali aelegantis structura contiguo”.

È nel 1968 che, su sollecitazione dei Padri Vocazionisti, la Soprintendenza ai monumenti di Napoli interviene pesantemente sulla chiesa distruggendo l'impianto barocco.

Intervento assolutamente discutibile e incomprensibile nelle intenzioni come nella sua concreta realizzazione.

Lo scopo pare fosse quello di liberare la Chiesa dell'Annunziata dalle sovrastrutture barocche per far emergere l'originale basilica paleocristiana. Già così non si capisce perché l'antica presunta impostazione paleocristiana fosse più meritevole di essere tutelata di quella posteriore barocca, ma lo stesso intervento fu assolutamente distruttivo e non scientifico.

Peggio! L'intervento, come detto, pessimamente realizzato, non mise in luce affatto l'antica chiesa paleocristiana, ma sostanzialmente quella medievale di stile romanico.

E non poteva essere diversamente, perché l'ampliamento medievale e le ristrutturazioni successive avevano di fatto cancellato l'impianto paleocristiano. 

Ciò però non ha impedito di spacciare nei decenni successivi la Chiesa dell'Annunziata, come “basilica paleocristiana”, sia nei primissimi studi che tutt'ora nella comunicazione istituzionale, mentre dovremmo definirla più realisticamente, per come si presenta oggi, “romanica”.

Di certo... certa segnaletica ancora alimenta tale falso.


Le colonne romaniche emergono dalla sovrastruttura barocca.


La Soprintendenza distrusse tutto l'impianto barocco, liberando le colonne romaniche, eliminando all'interno ogni decorazione barocca, abbassando il livello del pavimento di un metro e ottanta, riportandolo, così, a livello di quello antico, addirittura, senza alcuna necessità o ragione, abbattè il bel campanile a vela. Delle due campane che vi erano installate, una con data 1732, si trova presso l'ingresso, mentre l'altra è tuttora montata sulla cappella adiacente alla chiesa.


Anche lo spettacolare altare maggiore fu distrutto e sostituito con un frammento di un sarcofago in calcare rinvenuto nei lavori di “restauro” all'interno della chiesa. Questo marmo era in origine collocato all'interno di un altare in tarsie policrome di epoca barocca, per ricordarne l'uso, secondo un'antica tradizione popolare, come urna reliquiario delle spoglie di S. Matteo.

Infatti una dimenticata tradizione vuole che le spoglie del santo siano state conservate per un certo tempo proprio nell'allora cattedrale pestana.


L'abside con il campanile settecentesco a vela.



La Chiesa oggi.


martedì 16 novembre 2021

LE CINQUE CAPACCIO.



Sì, avete letto bene: le cinque Capaccio.

Tante sembrano apparentemente essercene.

A ciò si aggiunge un altro piccolo mistero.

In tutte le mappe antiche vi è una strana inversione per cui l'antica città medievale di Capaccio sul Monte Calpazio è indicata come “Nuova”, mentre quella apparentemente più recente, la Capaccio, sul Monte Soprano, cioè l'attuale nostro capoluogo, come “Vecchia”.

La spiegazione più diffusa e comunemente accettata è che si tratta di un errore a catena fatto dai cartografi.

Sicuramente è vero che i cartografi dell'antichità compilavano le loro mappe sulla base di precedenti mappe, sulle narrazioni dei viaggiatori e mercanti o sulle riminiscenza letterarie, in genere classiche. Cosa che spiega perché non di rado compaiano su queste mappe città già allora da tempo abbandonate ed in rovina. 

Ma appare assai strano che lo stesso errore compaia su tutte le mappe sino a quasi il settecento. È difficile pensare che tutti abbiano potuto sbagliare, sempre che quegli antichi cartografi non fossero a conoscenza di qualcosa di cui non contemporanei abbiamo perso memoria.

Per cominciare a sbrogliare la matassa ingarbugliata di questo mistero, dobbiamo cominciare dall' etimologia del paleonimo “Capaccio”.

Il primo a farne l'etimologia è Philipp Clüver o Cluverio (Danzica, 1580 – Leida, 31 dicembre 1622), un erudito, definito il padre della geografia storica.

Personaggio interessante, che fu anche soldato di ventura, che intraprese lunghissimi viaggi in tutta Europa, visitando persino Capaccio, di cui parla in più occasione nella sua opera “Italia Antiqua”, pubblicata postuma nel 1624.

Il Cluverio propone che il paleonimo Capaccio derivi dal nome del monte su cui sorgeva l'antica città medievale: Calamatius, Calamazio, Calpazio e dunque Capaccio.

Ma questa è una tesi erudita, messa già in discussione nel settecento da Giuseppe Antonini, il quale riteneva che invece derivasse da Caput Aquae.

Il caput aquae per il latini è la fonte in cui nasce un corso d'acqua o dove inizia un acquedotto di una città.

Sappiamo, che di monti denominati Calpazio ve ne è uno solo, mentre di Capaccio ne esistono diverse in tutta Italia.

 Un esempio noto è Via Capaccio a Firenze, dove l'edonomimo, o nome di via, è generalmente fatto derivare dal caput aquae dell'antico acquedotto romano che serviva la città, lì situato.

Gli studiosi contemporanei optano per l'ipotesi che Capaccio nasca come toponimo identificante lo specchio d'acqua, con le sue numerose sorgive, da cui si origina il fiume modernamente detto Capodifiume. Nome poi traslatosi, come Caputaquis, all'insediamento sorto sul Monte Calpazio, notoriamente privo d'acqua, tanto che i suoi abitanti dovettero ricorrere a cisterne alimentate dall'acqua piovana.

L'Antonini, però, immagina una particolare variante dell'origine del paleonimo.

Egli, infatti, ritiene che derivi da caput aquae, inteso però come capo dell'antico acquedotto che serviva la città di Paestum.

Scrive infatti nella sua “Lucania, discorsi” (pag. 256, Napoli, 1745):

“L'è venuto il nome di Capaccio da Caputaquae, luogo poco distante dal paese, dove cominciano gli acquedotti, che l'acqua di buona qualità in Pesto conducevano. Vengosi ancora questi sulla strada, onde vassi a Trentinara”.

L'Antonini, però è per questa sua partcolare ipotesi fortemente criticato dal Magnoni, altro erudito settecentesco, che propende invece per quella del Cluverio, anche se ritiene possibile quella per cui Capaccio deriverebbe invece da Caputaquae, ma non nel modo in cui l'Antonini la intende. 

Infatti nella sua “Lettera di Pasquale Magnoni al barone Giuseppe Antonini ...” (pag. 30, Napoli, 1763), scrive:

“...Ed in vero questa opinione è assai più probabile della comune e cioè di aver Capaccio preso il nome dal vicino Capo di Fiume, e tantoppiù della vostra che lo vuole fatto da un luogo sulla strada, che va da Capaccio nuovo a Trentenara, appunto dove si dice Capo d'acqua. 

Questo luogo io non lo so, ma voglio credervi per un poco, che vi sia. 

Or ditemi non fu la Città sul monte dalla parte di Occidente da Pestani dopo la distruzione della loro Città edificata, la prima, che fu nominata Capaccio, ed ora Capaccio vecchio dicesi?

Questa, come Voi sapete è più di due miglia lontana da Capaccio nuovo verso Occidente, e fu del monte; all'incontro il luogo, che Voi volete chiamato Capo d'acqua, è distante qualche tratto ancora da Capaccio nuovo verso Oriente alla volta di Trentenara .

Sicchè come potea Capaccio vecchio che fu il primo anche ad essere cosi detto, ricevere questo nome da un luogo, che gli era piucchè tre miglia lontano?

Bisogna meglio riflettere. 

Dissi bene, che qualora non valesse l'opinione del Cluverio, più verisimile sembrar deve quella di essere Capaccio cosi detto da Capo di Fiume, che forse vale lo stesso, che Capo d'acqua; perocchè questo luogo è immediatamente sotto il monte, ove fu la Città da' Pestani edificata, e Capaccio la prima volta chiamata e perciò distinta ora dall'altro coll'aggiuntivo di vecchio.”

In realtà l'Antonini aveva ragione ed il Magnoni torto.

Infatti da un documento del 1913 apprendiamo che l'approvvigionamento di acqua dell'allora nuovo acquedotto cittadino che serviva il Capoluogo avveniva da delle fonti, acquisite dal Comune di Capaccio nel territorio di quello di Trentinara, denominate "Capodacqua, Vernaglia ed Ospedale".

La Capodacqua citata dall'Antonini dunque esiste realmente.

A questo punto è lecito chiedersi anche se avesse ragione sul punto dell'origine del paleonimo Capaccio dalla Capodacqua presso il Monte Vesole e non da quella ai piedi del Monte Calpazio.

Capodacqua che in entrambi i casi val lo stesso che dire Capaccio.

L'ipotesi è affascinante.

Sappiamo dai documenti d'epoca che l'attuale Capaccio Capoluogo cominciò ad essere detta Capaccio solo dalla fine del quattrocento, sino ad allora era detta casali di S.Pietro di Rodigliano. Toponimo, oggi, quello di Rodigliano, ancora esistente, ma contrattosi a definire una zona assai più ristretta di quella originaria, quella dove sorge l'attuale cimitero cittadino.

Infatti nel Codex Diplomaticus Cavensis (9, pag. 105 anni 1065/1072) si legge:

"Ego Petrus filius quondam Mauri su[b]diaconi clarifico me habere rebus in locum Trintinaria et in locum Ridilanum ubi proprio Monticellum dicitur et in locum Pazzano ..." 

Pare chiaro, quindi, che Monticellum (Monticello) è una località specifica di Ridilianum, cosa che escluderebbe che la Capaccio sul Monte Soprano possa essere quindi denominata come “Vecchia”, come pur accade nelle antiche mappe, rispetto a quella sul Monte Calpazio, che, invece su queste antiche mappe è detta “Nuova”. Almeno non dal punto di vista della denominazione.

È anche vero però che Caputaquis, cioè la Capaccio sul Monte Calpazio, sorse intorno all' VIII o IX secolo (o secondo alcuni ancora prima, di uno o due secoli), mentre l'attuale Capaccio sul Monte Soprano è probabilmente più antica, potendo essere sorta nei suoi casali su antiche ville romane nel periodo tardo antico. 

Rodigliano (Ritilianum, Ridilianum, Redilianum, ecc.), come Valenzano (più tardi Balenzano) o Pazzano sono tutti antichi toponimi propri del circondario di Capaccio Capoluogo derivati probabilmente da nomi gentilizi romani.

In tal senso Vincenzo Rubini mi parlava di diversi resti antichi di età romana emersi durante le ristrutturazioni di alcuni storici edifici del Capoluogo. Sappiamo poi che per qui passava l'antico acquedotto che da Vesole riforniva l'antica città romana di Paestum.

Particolare questo importante!

Infatti se le fonti sotto il Calpazio sono il caput aquae del Capodifiume, quelle di Vesole sono il caput aquae dell'acquedotto.

In una mappa cosiddetta “aragonese” (attualmente conservata presso la Bibliothèque Nazionale de France), per alcuni un falso del settecento, per altri un copia settecentesca di un originale quattrocentesco, compaiono dei particolari interessanti.

Vi sono disegnati due acquedotti terminanti a Paestum.

Uno che ha il suo inizio presso “Capo d'Aqua”, cioè le sorgenti del Capodifiume, l'altro in collina dopo Capaccio Capoluogo.

Che si tratti di un falso settecentesco o di un originale, la mappa riporta sia la dizione “Capodacqua” come origine dell'antico acquedotto, pur confondendola con le fonti del Capodifiume, sia il reale caput aquae dell'acquedotto dopo Capaccio verso Trentinara.

È come se fosse sopravvissuta la memoria, ma che fosse stata fraintesa dallestensore della mappa.

A questo punto è ipotizzabile che la dizione di Capaccio Capoluogo, come “Vecchia” nelle mappe, più che al centro abitato, si riferisse a la Capaccio, intesa come il “Caputaquae” dell'antico acquedotto romano, sicuramente più antica delle Capaccio - Caputaquis sul Monte Calpazio.

Interessante, poi, l'osservazione di Mario Mello, che nelle sua opera “Da Poseidonia a Caputaquis medievale”, ci fa notare come se le fonti del Capodifiume erano dette “Caput Aquae”, con la desinenza latina al genitivo, cioè come a dire il capo o la fonte delle acque, mentre l'antica città sul Calpazio era invece detta “Caputaquis”, con la desinenza in ablativo, che potremmo intendere, mia ipotesi, come “la sommità o la cima sulle acque”.

Difatti sia il nome stesso del Monte Calpazio, che la sua dizione antica di Calamatio, secondo alcune teorie in ambito toponomastico, rimandano nella loro etimologia all'idea di altura (Cala= rilievo; Alp= monte).

È anche vero che nei documenti medievali, come quelli cavensi, il Capodifiume era detto Atium o Accium, cioè Accio, da cui per alcuni, come Vincenzo Rubini, le diverse versioni del toponimo ricorrenti nei documenti delle cancellerie normanne ed angioine o nelle carte cavensi, dai quali si sarebbe originato il paleonimo Capaccio: Caputatium, Caputaccium, Capuaccio.

Quindi seguendo il mio precedente ragionamento, se il paleonimo Capaccio, come Caputaquae, pare essere collegato alle acque del Capodifiume, quello di Capaccio, come Caputaquis, potremmo ipotezzare che invece sia legato all'altura su cui la città sorse.

Quindi ricapitolando...

la prima Capaccio, intesa come Caputaquae, è lo specchio d'acqua da cui parte il Capodifiume, nei cui pressi, sorgeva un abitato, che già nel X secolo era detto “Casavetere di Capaccio”.

La seconda Capaccio, sempre intesa come Caputaquae, è il caput aquae dell'antico acquedotto sul Monte Vesole.

La terza Capaccio, è la città medievale di Caputaquis sul Monte Calpazio.

La quarta Capaccio, è l'attuale Capaccio Paese, che comincerà così a chiamarsi verso la fine del quattrocento, quando lo spopolamento di Caputaquis era ormai un fatto compiuto.

La quinta Capaccio è l'attuale cittadina di Capaccio Scalo, in piana, sviluppatasi con la riforma fondiaria e negli anni successivi.



lunedì 1 novembre 2021

L'AMORE NEOPLATONICO TRA ARTE E FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO


La nascita di Venere (1485) di Sandro Botticelli 




Eros o Amore, come intermediario tra l'umano ed il divino, ha nel pensiero platonico una valenza di portata fondamentale nel percorso del "filosofo" che vuole trascendere la propria condizione umana.

Tema che ritorna nel platonismo rinascimentale, ma già presente nel platonismo medievale dei "Fedeli D'Amore", e che si manifesta compiutamente in tante opere d'arte come la Venere del Botticelli.

Lara Pavanetto, storica, ricercatrice e scrittrice, in un suo articolo che riprendiamo integralmente, e che ringrazio per avermi permesso di pubblicarlo in questo blog, affronta il non semplice compito di discostarsi da certe narrazioni ufficiali per chiarire la valenza esoterica e magica dei circoli neoplatonici fiorentini, che non poco influenzarono  la produzione artistica cittadina.

(Enzo Di Sirio)


L’intero pantheon greco nel sistema di Pico e Ficino, ruotava attorno a Venere e Amor.

 Secondo Platone, infatti (considerato dai filosofi rinascimentali quasi come Dio Padre e Plotino come Gesù), la comunione tra i mortali e gli dèi si stabiliva attraverso la mediazione dell’Amore.

 Secondo Ficino, l’amore era il nodo perpetuo e la congiunzione dell’universo, e tutte le parti erano saldate l’una all’altra mediante una carità reciproca, perché come aveva scritto sant’Agostino: "Tria in Charitate, velut vestigium Trinitatis".

Venere era dispensatrice di doni particolari, definiva il sistema universale degli scambi mediante i quali i doni divini erano messi in circolazione.

L’immagine delle tre Grazie, che si presenta così spesso nel Rinascimento, appariva una figura appropriata a illustrare il ritmo dialettico dell’universo. Le Grazie erano considerate la triade esemplare, l’archetipo sul quale erano modellate tutte le altre triadi della dottrina neoplatonica: la triade logica species-numerus-modus, la triade teologica Mercurio-Apollo-Venere, la triade morale Veritas-Concordia-Pulchritudo.

E tutte le triadi erano governate dalla legge della emanatio, raptio e remeatio. Una singola triade poteva così servire come cifra dell’universo, perché traccia della trinità divina. La dottrina delle ‘vestigia della Trinità’ era una delle misteriose rivelazioni che pagani e cristiani condividevano. 

Ficino ritrovò lo stesso pensiero fra i pitagorici e i platonici: la trinità, infatti, era considerata dai filosofi pitagorici la misura di tutte le cose. Ficino scrisse nel De Amore che Dio governa le cose mediante il tre, e che le cose stesse sono determinate mediante il tre. 

Il supremo fattore prima crea le cose, poi le trae a sé, e in terzo luogo le rende perfette: crea, rapit, perficio. Da qui la triade che spiega le tre fasi del circolo dell’amore divino: Pulcritudo-Amor-Voluptas.  

Amore è desiderio suscitato dalla bellezza. 

Il desiderio senza la bellezza non sarebbe amore, ma passione animale. La bellezza da sola, senza passione, sarebbe entità astratta che non suscita amore. Solo il rapimento vivificante di Amor può unire i due contrari di Pulchritudo e Voluptas. Ma per conseguire la perfetta unione dei contrari, l’Amore deve rivolgersi verso l’Aldilà, perché se rimane accanto al mondo finito, la passione e la bellezza continueranno a essere in contrasto.

 

Nicola Cusano (Kues, 1401 – Todi, 11 agosto 1464), cardinale, teologo, filosofo, umanista, giurista, matematico e astronomo tedesco, spiegherà che: un circolo e una linea retta sono incompatibili fin tanto che rimangono finiti, ma coincidono se infiniti. 

Solo diventando Grazie trascendenti, uniti dal rapimento di Amore, Bellezza e Piacere potranno coincidere. 

Esiste dunque la necessità di un termine medio che crei equilibrio, Amor, che guardi all’Aldilà come al vero fine dell’estasi amorosa. Solo così l’uomo può raggiungere l’equilibrio nel tempo presente. L’equilibrio è fondato sull’estasi amorosa, l’estasi è la gioia divina, l’Aldilà. Ma, paradossalmente, per ‘vedere’ cioè conoscere l’estasi divina bisogna essere ciechi. Amor deve essere senza occhi perché deve essere al di sopra dello stesso intelletto che è una limitazione, come diceva Orfeo.

A questo punto la tradizione che vedeva nel cieco Cupido un simbolo di passione animale priva di luce, inferiore all’intelletto, fu del tutto ribaltata. Le dottrine neo-orfiche rinascimentali celebrarono la supremazia dell’amore cieco. 

 

L’Amore cieco

Per Marsilio, Pico della Mirandola, Giordano Bruno, ma anche Lorenzo de’ Medici, la forma suprema dell’amore neoplatonico era la cecità. 

Giordano Bruno, in particolare, negli Eroici furori, distinse ben nove modi di cecità amorosa. La cecità sacra, secondo Bruno, è la più alta forma d’amore. E’ la presenza della divinità che acceca, con la sua luce. Ne consegue che si ‘vede’, cioè si conosce di più con gli occhi chiusi, che aperti.

Giordano Bruno si collega alla teologia negativa di Pitagora e Dioniso, tralasciando come falsa quella dimostrativa di Aristotele e degli scolastici medievali: i misteri più alti trascendono la comprensione, per cui devono essere appresi in uno stato di oscurità in cui svaniscono le distinzioni della logica. 

Si poteva parlare a ragione di una ‘dotta ignoranza’. 

L' 'Uno’, il Dio nascosto, poteva essere descritto soltanto in negativo, cioè negandone gli aspetti che lo avrebbero reso finito. Ma l’Amore cieco, il cieco cupido, prese a questo punto una piega orfica inaspettata perché il cieco Eros era anche conosciuto come un dio volubile, un demone che annebbiava l’intelligenza eccitando gli appetiti animali dell’uomo. La voluttà, infatti, era considerata un piacere cieco, ingannevole, corruttore ed effimero.

Come poteva questo dio diventare una forza addirittura superiore alla ragione? 

Marsilio Ficino scriveva che l’unica cosa negativa dei piaceri dei sensi, è che sono effimeri, e per renderli eterni serve proprio l’intelletto. Tuttavia l’intelletto chiarificando restringe e pone dei limiti. Solo l’Amore poteva espandere la comprensione intellettuale eliminando i limiti. Per questo Pico celebrava soprattutto la cecità dell’amore supremo: 

"Entriamo nella luce dell’ignoranza e, accecati dall’oscurità del divino splendore, esclamiamo col profeta: venni meno nei tuoi cortili, o Signore".

San Paolo nella lettera agli Efesini (19) dice:

 "Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente".

Nel De occulta philosophia, Agrippa di Nittesheim riporta alla lettera le parole di Pico:

"Perché Amor è cieco. Ideoque amorem Orpheus sine oculis describit, quia est supra intellectum".

 Di conseguenza Orfeo descrive l’Amore senza occhi, poichè è oltre l’intelletto.

Spiegando la creazione del mondo, Platone aveva scritto che un corpo che comprendesse in sé tutte le cose non avrebbe bisogno di occhi per vedere né di orecchi per udire, perché tutte le cose sarebbero già dentro di lui, e nessuna fuori di lui. 

Per questo i più alti misteri si devono vedere senza occhi e udire senza orecchi. A ciò si era riferito Orfeo quando aveva detto che Amore è senza occhi. I misteri allora si riceveranno non mediante i sensi ma con la pura anima. 

In ‘Sogno di una notte di mezza estate’ Shakespeare scrive: 

"Amore non guarda con gli occhi, ma con la mente. E per questo l’alato Cupido è raffigurato cieco".

Sull’Amore cieco le teorie di Ficino e Pico si divideranno. Pur ritenendo entrambi che la più alta forma d’amore è cieca, per Ficino la cecità derivava dalla gioia, mentre per Pico la cecità implicava una dottrina di auto annientamento mistico. Per Pico, l’uomo per accedere all’assoluto, deve abbandonarsi completamente a uno stato di non-conoscenza e avvicinarsi al segreto divino nella cecità dell’autodistruzione. Questa era per Pico una suprema forma d’amore che in questo si distingueva dall’amicizia, perché non è ricambiata. Sarebbe infatti assurdo supporre che l’amore di un mortale per Dio, sia dello stesso genere dell’amore che Dio accorda a un mortale. Estendere la reciprocità a Dio è impossibile, per Pico. Per cui l’amore divino, incredibilmente e paradossalmente, diventa la suprema espressione della discordia. Si può conseguire una ‘felicità naturale’ scoprendo in se stessi l’orma di Dio, ma la ‘felicità suprema’ solo perdendosi in Dio. 


La dottrina dei contrari

Nel Sofista di Platone la dottrina dei contrari che si uniscono nella concordia, è così espressa: 

"L’essere è uno e molti, ed è tenuto insieme dall’inimicizia e dall’amicizia".

Plotino invece scrive: 

"Come vengono prodotti gli incantesimi? Mediante la concordia naturale dei principi simili e la contrarietà dei dissimili. La vera magia è l’Amore contenuto nell’Universo, e l’Odio ugualmente. In tutto l’universo c’è una sola generale armonia, benché formata di contrari".

Pico definì la bellezza un principio ‘composto’ e intrinsecamente ‘contrario’. Segue che in Dio non c’è bellezza perché la bellezza include anche il suo contrario, l’imperfezione. Così il principio dell’intero nella parte, implica che Venere si congiunga a Marte dio della guerra, e che la natura di Marte sia una parte essenziale di quella di Venere e viceversa. Per cui la ferocia può essere considerata amabile, e la vera amabilità è feroce. 

Nell’amante perfetto amabilità e ferocia coincidono. 

Il Dio della vendetta è anche il Dio dell’amore. La sua giustizia è misericordia, la sua ira pietà, la sua stessa punizione è una benedizione perché purifica dal peccato. L’identità divina della collera e dell’amore, era il segreto della Bibbia. Aggiungo io, era la spiegazione dell’esistenza del Male. La coincidenza degli opposti nell’Uno supremo infiammò l’immaginazione artistica del rinascimento. Il motto che spiegava Erasmo nei suoi Adagia, festina lente, cioè affrettati lentamente, un evidente ossimoro, diventò la massima universalmente preferita nel Rinascimento. Una massima espressa in molte immagini: un delfino attorno a un’àncora, una tartaruga che porta sul guscio una vela, una vela attaccata a una colonna, una farfalla posata su un granchio, un falco che tiene nel becco i pesi di un orologio, una remora che si attorciglia attorno a una freccia, un’aquila e un agnello, una lince bendata. 

La stessa Bibbia diceva che bisognava essere astuti come il serpente e miti come una colomba: un solo rapido atto di crudeltà compiuto al tempo giusto, poteva risparmiare inutili crudeltà. Sembra di sentir parlare Machiavelli. Per questo l’unione finale non poteva che essere quella tra due apparenti contraddizioni, Amore e Morte: la teoria eraclitea che gli opposti coincidono. Il cammino verso il basso e quello verso l’alto portano alla fine allo stesso punto. Festina lente era anche il segreto della Natura, come lo fu per il Rinascimento l’invenzione della palla di cannone, che divenne simbolo di potenza nascosta liberata al momento opportuno (festina lente). 

Nella sua Apologia Pico attribuiva alla magia naturale una forza simile alla palla di cannone: 

"Non esiste forza latente in cielo o in terra che il mago non possa liberare mediante appropriate sollecitazioni".

 E’ l’uomo il legame vitale tra le arti della magia e le opere della natura. L’uomo riconosce in se stesso le forze della natura, e nella natura il modello delle forze che sono dentro di lui. Inserendo la sua arte magica nella natura, egli può liberare forze più grandi delle proprie.

Leonardo da Vinci esplorò in questo modo i segreti della natura, desiderando liberare e imbrigliarne le forze nascoste. Il suo metodo disordinato, il suo apparente caos sconcertante per gli scienziati moderni, deriva proprio dal pensiero di Pico, da quella ricerca di affinità tra cose diverse che hanno le caratteristiche di un potere magico. Pico definiva l’arte del mago un ‘matrimonio tra cielo e terra’: l’unione dei contrari.

 

Lo smembramento come supremo sacrificio

Ma, una volta che l’Uno supremo discende nei Molti, questo atto di creazione, secondo la dialettica neoplatonica, diviene un’agonia sacrificale perché l’Uno viene fatto a pezzi e disperso. Per cui la creazione è una morte cosmogonica, mediante la quale la potenza concentrata della divinità è offerta e sparsa. La discesa e la diffusione della potenza divina saranno seguite dalla sua resurrezione, quando i Molti saranno ricomposti nell’Uno. 

Lo ‘smembramento’ diventa atto creativo. I filosofi neoplatonici lo chiameranno Dioniso, Zagreo, Nictelio, Isodaite, e creeranno miti allegorici in cui le trasformazioni sono presentate come morte e distruzione seguite dal ritorno alla vita e dalla rinascita. Perciò, le ‘Cose Ultime’ della mistica, essendo estreme, potranno essere raffigurate solo come catastrofi. Pico descriverà ‘la violenzia dello amor celeste’. Una violenza che sarà espressa in immagini raffiguranti un’ardente passione molto umana. Una passione che, molto umanamente, ha per oggetto la Donna. E alla fine, l’Amore Divino finì per incoraggiare il culto spirituale dei sensi. Ma l’Amore divino è dunque violento e distruttivo?

Consideriamo il dipinto di Tiziano ‘L’amor sacro e l’amor profano':


L'amore sacro e l'amor profano (1515) di Tiziano.


Che tipo di fontana è quella dove le due donne del dipinto si incontrano? 

È una fontana d’amore perché lo indica la presenza di Amor che si china sull’acqua e ci gioca. Ma spostiamo la nostra attenzione sui rilievi che decorano la fontana, sono minacciosi e violenti: un uomo viene frustrato, una donna trascinata per i capelli, un cavallo senza briglie è condotto via per la criniera. Il cavallo è simbolo platonico della passione sensuale, della libido, quell’amore che Pico definiva ‘bestiale’. 

Queste scene crudeli e violente mostrano che la passione animale può essere imbrigliata, ma deve essere punita. 

La violenza è una fase dei misteri d’amore, e queste scene violente non erano inconsuete nei riti pagani di iniziazione. Il Rinascimento conosce benissimo queste raffigurazioni perché le vede nelle stanze romane appena scoperte, accessibili forse più allora che oggi. 

Sia Ficino che Pico dicevano di sapere che nei riti pagani di iniziazione all’amore, il primo stadio era costituito da una purificazione della passione sensuale: un rito doloroso attraverso il quale l’amante si preparava alla comunione col dio. 

Per questo, i simboli di ‘castigazione’ furono introdotti cosi frequentemente nei contesti amorosi dagli artisti rinascimentali. 

Veronese illustrerà le ‘torture dell’Amore’, intese come prova purificatrice. I misteri amorosi di Platone ammettono solo due forme di amore castigato: l’amore celeste e l’amore umano. 

Incredibilmente, l’amore umano è il più misurato dei due, perché sa di essere effimero e finito ovvero limitato, mentre l’amore celeste, privo di ogni ornamento e limitazione è più appassionato e ardente, e violento. 

L’Amore divino può anche dunque essere, un dio di morte.

Seguendo questa ‘teoria’ dell’Amore consideriamo ora un’opera e un mito che mi hanno sempre molto incuriosito: il cassone nuziale di Sandro Botticelli. Fu commissionato nel 1483 da Lorenzo il Magnifico, il quale voleva regalare questa serie di opere a Giannozzo Pucci e Lucrezia Bini per il loro matrimonio. E’ oggi conservato al Museo del Prado, a Madrid. Narra la storia di Nastagio degli Onesti, una strana storia per ornare un cassone nuziale.

 

Sandro Botticelli, 1483, cassone con le storie di Nastagio degli Onesti.


Nastagio degli Onesti era un uomo innamorato di una donna figlia di Paolo Traversari, però non era corrisposto. La donna cambierà idea dopo aver assistito a una punizione inflitta a un’altra donna, irriconoscente verso l’amante. 

Nel primo episodio Botticelli rappresenta il momento in cui Nastagio, dopo essere stato rifiutato dalla donna, abbandona la città e comincia a vagare per la foresta. Mentre cammina per la foresta, Nastagio vede una donna seminuda che sta scappando terrorizzata, mentre dei cani la inseguono per azzannarla e alle loro spalle c’è un cavaliere armato che insegue con furia la donna. Nastagio prova a difendere la donna, ma purtroppo non riesce ad avere la meglio sugli assalitori. In questo spezzone narrativo, Botticelli rappresenta Nastagio più volte nella stessa scena (inserisce il protagonista ben tre volte), prima mentre vaga e poi mentre si imbatte nella donna in fuga. A fare da contorno alla scena c’è una grande foresta, con alberi molto alti, mentre sullo sfondo si può notare un paesaggio marittimo, che dona al tutto una forte profondità. Al confronto del grande ambiente, i protagonisti sembrano quasi delle miniature, ma nel contempo sono eccezionalmente dettagliati.

La vicenda di Nastagio degli Onesti si rifà al mito di Atteone. Secondo il mito, nel corso di una battuta di caccia, Atteone provocò l'ira di Artemide quando la sorprese mentre faceva il bagno insieme alle sue compagne all'ombra della selva Gargafia. Il caldo estivo, infatti, le aveva convinte a riporre le vesti e a rinfrescarsi interrompendo la caccia. La dea, per impedire al cacciatore di proferir parola intorno a quello che aveva visto, trasformò il giovane in un cervo spruzzandogli dell'acqua sul viso. Atteone si accorse della sua trasformazione solo quando scappando giunse a una fonte, dove poté specchiarsi nell'acqua. Intanto il cacciatore fu raggiunto dalla muta dei suoi cinquanta cani, resi furiosi da Artemide, i quali, non riconoscendolo, sbranarono il loro vecchio padrone. I cani, una volta divorato Atteone, si misero alla ricerca del loro padrone per tutta la foresta, riempiendola di dolorosi lamenti. Più tardi giunsero nella caverna di Chirone che donò loro un'immagine del padrone per attenuare il loro dolore. 

Giordano Bruno scrive che: 

"Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Rarissimi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda".

Atteone rappresenta, dunque, il filosofo alla ricerca della Diana ignuda che altro non è che la Natura rivelata nella sua vera essenza. Atteone diventa così, anche per l' analogia con il pellicano che alimenta i figli con la propria carne prefigurando l' eucaristia, una nuova e inattesa Imago Christi. 

Boccaccio fu sempre attratto dal mito di Atteone. Nel poema giovanile La Caccia di Diana, rovesciò il mito raccontando di un cervo che per amore si trasforma in «uomo d' intelletto». Nella più tarda Ecloga XI paragonò il pius Actheon che si dà in pasto ai propri cani al Cristo eucaristico che si dà in pasto ai fedeli. 

La novella di Nastagio degli Onesti, è fra le più famose del Decameron (V.8). Il cuore narrativo è l' allucinata visione di un cavaliere che va a caccia di una giovane donna e la fa sbranare dai cani. La tradizione conosceva “cacce infernali” simili a questa, ma rispetto a quelle la novella del Boccaccio non solo trasportava la scena dalla più fonda notte all' ombra diurna di un bosco in riva al mare, ma aveva in più il particolare, orripilante e decisivo, dei cani di cui la donna diventa preda e pasto. 

Da questa novella il Botticelli aveva preso spunto per il suo cassone nuziale?

Boccaccio, ricordiamo, visse tra il 1313 e il 1375, nacque probabilmente a Firenze e fu autore del Decameron  e di altre opere in volgare e in latino. Non conobbe mai direttamente Dante, ma ne ammirò l'opera e scrisse su di lui un Trattatello in laude di Dante che è anche una biografia. Curò un'edizione manoscritta della Commedia, correggendone il testo e aggiungendo al titolo l'aggettivo Divina, che rimase nelle edizioni a stampa del Cinquecento. Verso la fine della sua vita iniziò una pubblica lettura dell'Inferno nella chiesa di Santo Stefano in Badia, interrotta al Canto XVII.

Boccaccio nei suoi vari racconti vuole portare conforto alle vittime delle pene d'Amore che imperversa soprattutto sulle donne. Dante e Boccaccio hanno una concezione molto differente riguardo al ruolo della donna nel ‘gioco’ dell’amore. 

La principale differenza è la concezione teorica e divina dell'amore di Dante, in antitesi con quella più carnale di Boccaccio. Dante riteneva che la donna fosse l'unico tramite tra l'uomo e Dio, la riteneva dunque il ‘nodo’ della triade potremmo dire, per questo doveva essere nell’Aldilà, morta. 

In quasi tutte le sue opere, la donna è presentata con un'aggettivazione divina, un angelo. Ad esempio, nel sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” possiamo notare, oltre all'aggettivazione divina di Beatrice (e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare), come ogni uomo rimane quasi pietrificato vedendola, e nessuno si azzarda ad avvicinarsi o a pensare di “toccarla”. 

Del tutto opposta è la visione di Boccaccio. 

Per lui la donna non è un angelo ma un essere umano. L'amore non è visto solo come qualcosa di teorico, ma diventa un sentimento umano e terreno che spesso coinvolge la carne altrettanto o più dello spirito, e accende le passioni più sensuali: può essere all'origine di grande felicità, ma anche di delusione, sofferenze, tradimenti, gelosia, odio e violenza. L’Amore può essere anche Discordia. 

Nell’Hypnerotomachia Poliphili  letteralmente "Combattimento amoroso di Polifilo in sogno", romanzo allegorico, stampato a Venezia da Aldo Manuzio nel dicembre 1499, e attribuito da alcuni al misterioso frate domenicano Francesco Colonna del convento domenicano di Treviso, da altri a Francesco Colonna nobile romano; l’argomento è un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, che ormai sappiamo essere metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell'Amore platonico.

Il viaggio iniziatico richiama alla mente un grande romanzo dell'antichità, le Metamorfosi di Apuleio. I continui richiami alle divinità dell'antica Roma fanno del romanzo un'opera dichiaratamente pagana, il che spiega perché fu stampata anonima. 

È un’opera che sicuramente ispirò Giorgione, e che si trovava nelle librerie di tutti gli umanisti del tempo. Ebbene, nel primo libro dell’Hypnerotomachia, si narra che Polifilo prende parte a una complessa cerimonia officiata da un’anziana sacerdotessa, una specie di Santa Messa che si conclude fra miracolose fioriture di rose nate dal sangue. 

Terminati i riti, Polifilo e l’amata Polia ritrovata, innamorati vanno ad esplorare le rovine di un antico santuario che ospita un cimitero colmo di lapidi di amanti morti. Attraversandolo, dopo aver contemplato un dipinto in cui si descrivono i regni dell’oltretomba e le punizioni inflitte a chi ha travalicato le leggi di amore, si giunge finalmente al mare, dove la nave di Cupido attende entrambi per imbarcarli verso Citera. Arrivati sull’isola, Polia e Polifilo partecipano al trionfo di Amore, che li conduce a un anfiteatro. Al suo centro si trova la fontana di Venere, in cui sta la Divina Madre occultata da una cortina. Cupido offre agli innamorati una freccia d’oro grazie a cui penetrare il velame; Polifilo esegue, e Venere appare. Segue un matrimonio mistico fra i due giovani, benedetto dalla divinità e sancito dalla ferita di entrambi, trafitti dalla medesima freccia. 

Che fiore sta sulla fontana dell’Amore nel quadro di Tiziano L’amor sacro e l’amor profano? 


Amore/morte

I riti pagani, gli uomini rinascimentali li conobbero attraverso sarcofagi romani. Un particolare che non si sottolinea mai abbastanza. Per cui conobbero miti che appartenevano a un contesto sepolcrale, e indagarono il loro significato segreto. Non li interpretarono come semplici favole, ma come allusioni ai misteri della morte dell’Adilà, e tutto in termini neoplatonici. 

Un artista rinascimentale, vedendo raffigurato su un sarcofago romano il tema di Leda e il Cigno, avrebbe cercato di capire perché mai un’avventura amorosa di Giove fosse stata scelta per decorare una tomba. Si sarebbe domandato perché gli amori degli dei antichi apparivano sui sarcofagi così spesso. 

Gli amori di Bacco per Arianna, di Marte per Rea, di Zeus per Ganimede, di Diana per Endimione. Tutte variazioni di uno stesso tema: l’amore di un dio per un mortale. Forse che morire significava essere amati da un dio, e partecipare per mezzo di lui alla beatitudine eterna? 

Un umanista rinascimentale scrive:

"Ci sono molti tipi di morte, ma il più apprezzato e lodato sia dai saggi dell’antichità sia dall’autorità della Bibbia è questo: quando coloro che bramano Dio e desiderano congiungersi con lui (che fare non si può in questa prigione della carne), sono rapiti in cielo e liberati dal corpo per mezzo di una morte che è il sonno più profondo. In questo modo san Paolo desiderava di morire quando disse: Bramo di dissolvermi e di essere con Cristo. Questo tipo di morte era chiamato bacio dai teologi simbolici, la mors osculi dei cabalisti".

Pico scrisse sulla ‘morte di bacio’ nel suo Commento. I misteri pagani d’amore culminavano in uno hieros gamos, un’unione estatica col dio che veniva sperimentata dal neofita come un’iniziazione alla morte. 

Come scrive Pico:

"Alceste perfettamente amò, che all’amato andare volse per morte, e morendo per amore fu per la grazia delli Dei a vista restituita".

Amore come morte era concetto accettato nella cerchia medicea, tanto che lo stesso Lorenzo de’ Medici spiegava commentando i suoi sonetti, che cantando l’amore aveva iniziato con un sonetto sulla morte:

"Perché chi vive ad amore, muore prima all’altre cose. E se lo amore ha in sé quella perfezione che già abbiamo detto, è impossibile venire a tale perfezione se prima non si muore".

 La teoria platonica dell’amore diventava così una chiave per interpretare una determinata filosofia della morte. E i sarcofagi romani sembravano proprio rivelare questi misteri, che possono togliere la paura della Morte.


"Natura insegna a noi temer la morte, ma Amor poi mirabilmente face suave a’ suoi quel ch’è ad ogni altro amaro".

Questi sono versi di Lorenzo de’ Medici: amore rende la morte meno amara. Amor come dolce-amaro. L’espressione deriva da Saffo, ma sembra che i filosofi neoplatonici lo ignorassero. 

Erasmo la farà derivare da Plauto, Ficino la presentò come un concetto orfico-platonico: 

"L’amore viene detto amaro (res amara) da Platone, e non a torto perché la morte è inseparabile dall’amore (quia moritur quisquis amat). E anche Orfeo chiamava l’amore dolce-amaro, perché l’amore è una morte volontaria. In quanto morte è amaro, ma essendo volontario è dolce".

Un dipinto di Lorenzo Lotto mostra Amor che incorona un teschio posato su un cuscino, emblema di dolcezza o voluptas.



Lorenzo Lotto, Vanitas, putto con teschio


Lara Pavanetto è laureata in Storia delle Istituzioni politiche e sociali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Studia da anni la storia della Serenissima, in particolare l’amministrazione della giustizia penale tra Cinquecento e Seicento scovando negli archivi processi e documenti che riguardano vicende inedite e misteriose.
Ha almeno attivo numerose pubblicazioni che spaziano dalla storia sociale a quella del pensiero magico.

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