La presunta cartografia aragonese è oggetto di un vero giallo storico che ha visto diversi studiosi confrontarsi con opinioni diverse.
Tutto ha inizio con l'Abate Ferdinando Galliani, segretario dell'ambasciata napoletana a Parigi, erudito dai mille interessi, noto anche per i suoi studi di teoria economica. Questi trova nei Dépôts militari di Versailles due copie di una mappa del Regno di Napoli realizzate nel quattrocento, che avrebbe fatto copiare tra il 1767 ed il 1769.
Le carte sono di eccezionale pregio. “Riportano con esattezza non solo città, castelli, torri, casali, santuari, ma anche monti, vallate, pianure, torrenti, fiumi, laghi, acquedotti, sorgenti, miniere, ponti, porti, mercati, ruderi di edifici antichi: elementi non riscontrabili tutti insieme in nessun’altra carta del tempo, neanche in quelle toscane, che pure sono ricche di dati, talché è nato il sospetto che si tratti di una falsificazione totale o parziale”. (1)
Le mappe sarebbero state fatte disegnare da Alfonso d'Aragona e poi, pare, trasferite in Francia da Carlo VIII con la conquista francese del Regno di Napoli del 1495.
Sulla loro genesi vi sono diverse ipotesi.
La prima vede “Giovanni Pontano, umanista di primo piano nella corte napoletana, maestro e segretario di Alfonso duca di Calabria, e dal 1487 primo ministro di re Ferdinando, ... farsi promotore di una cartografia a grande scala del Regno, indispensabile per le necessità politiche, amministrative, militari di uno stato moderno”. (2)
Il Pontano per realizzare tale progetto si sarebbe servito di “tecnici” per le varie mansioni necessarie alla realizzazione di tale mappa.
Vladimir Valerio, uno dei maggiori esperti di questo campo di studi, accenna alla possibile ipotesi per cui sarebbe stato partecipe di tale operazione il monaco celestino Marco Beneventano, matematico, astronomo, cartografo e curatore dell’edizione della "Geografia" di Claudio Tolomeo pubblicata a Roma nel 1507, nonché amico del matematico Giovanni Cotta, frequentatore dell’Accademia Pontaniana. (3)
Fernando La Greca immagina che, chiunque sia o siano gli autori, queste mappe abbiano visto partecipi gli agrimensori-cartografi aragonesi e catalani della cerchia di Alfonso il Magnanimo. I cartografi nella loro realizzazione sarebbero partiti da copie medievali di carte romane, che avrebbero fornito la base fisica, sulla quale sarebbero stati eseguiti aggiustamenti e variazioni toponomastiche.
Se fossero vere, si potrebbe pensare che a Napoli vi fossero le conoscenze geografiche e le competenze tecniche per realizzare una mappatura dell’intero Regno ad un livello decisamente superiore a quello che si era in grado di conseguire nell'Europa del tempo o nei due o tre secoli successivi.
Quindi secondo Valerio e La Greca si sarebbe realizzato un particolare mix di situazioni che potrebbe spiegare la presunta "accuratezza" di queste mappe.
Da una parte le riforme amministrative avviate dagli aragonesi diedero loro strumenti di maggiore controllo e conoscenza del territorio permettendogli di acquisire dati come quelli relativi ai centri abitati e relative popolazioni, ad esempio, con i focatici.
Dall'altra la possibilità di accedere ad antiche mappe romane utilizzate come basi su cui innestare gli aggiornamenti derivanti dall'attività della burocrazia aragonese, ma anche le informazioni raccolte dagli eruditi con lo studio dei testi antichi.
La contestuale riscoperta della geografia tolemaica e la presenza nel regno di numerosi cosmografi furono ulteriori potenzialità. Se sommate, nel caso fosse provato più concretamente, ad un approccio diverso al disegno delle mappe grazie al contributo di “agrimensori”, che avrebbero potuto dare un'impronta più concreta e precisa all'impianto delle mappe (4), ci dovremmo trovare dinanzi a carte geografiche di eccezionale qualità e precisione.
In realtà se queste mappe presentano un numero di particolari ed indicazioni per quantità e qualità sconosciute a quelle precedenti, le imprecisioni e gli errori, non di rado grossolani, sono non pochi. Più che un lavoro sul campo di "agrimensori", questa presunta mappa aragonese sembra invece un lavoro fatto a tavolino nel chiuso di uno studio sulla base di informazioni eterogenee e non sempre, probabilmente, coerenti fra di loro.
Nello specifico le presunte mappe aragonesi che proponiamo e che illustrano il Principato Citra, sono quelle conservate nella Bibliothèque Nationale de France.
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Particolare della Mappa Aragonese conservata presso la BNF, tratta da La Greca e Valerio, Paesaggio antico..., op. cit., pag. 42. |
La mappa presenta diversi elementi interessanti, ma anche incongruenze e grossolani errori, non dissimilmente da quelle coeve.
Cominciando l'analisi da nord, abbiamo il “Silaro F(lumen)”, con una foce ad estuario e non a delta come nelle analoghe rappresentazioni cartografiche del tempo. Inoltre il suo percorso è più a nord come manifesta la presenza della Chiesetta di S.Vito sulla sinistra del fiume. Cosa vera perché attestata storicamente da diverse testimonianze, non ultima quella dell'Antonini. Questi, infatti, nella sua “Lucania” ricorda come al tempo del re Carlo II d'Angiò (1285-1309) una grande inondazione fece cambiare il corso del fiume più a sud, cosicché la chiesetta di San Vito si ritrovò dalla sinistra alla destra del Sele (5).
Compare poi il "Barizzo”, ma non l'abitato di Mercatello, che sappiamo aver avuto per tutto il medioevo un ruolo economico di assoluto rilievo come approdo commerciale sul Sele. Probabilmente perché all'epoca della redazione della mappa, questo aveva già perso importanza se non era ormai addirittura scomparso.
Troviamo poi "Palmi”, cioè il villaggio detto anche “Monte di Palma” (6), che ricadeva insieme a “S. Chirico” nei beni nel territorio di Capaccio del monastero di “S. Lorenzo de strictu”. Monastero istituito nell'attuale Castel San Lorenzo dal nobile longobardo Guaimario III di Capaccio agli inizi del XII sec.. Guaimario, poi, prenderà il saio benedettino e, prima di morire intorno al 1137, donerà il Convento alla Badia della SS. Trinità di Cava.
Dell'abitato di Monte di Palma , Pietro Ebner, riferisce quanto detto in precedenza dal Di Stefano e cioè che “si vantavano i Rocchesi di averlo esso co' Capaccesi distrutto per una certa guerra con costoro nata: ma io come ho detto credo da detto esercito (di Federico II) rovinato” (7).
Più a ovest, dopo il Sele scendendo verso Paestum compaiono due curiosi toponimi: “S. Modesto” e “Santa Crescenza”. Toponimi che non hanno riscontro in alcun documento d'epoca, ma che sono però comprensibili alla luce della tradizione cristiana, che vuole tali santi rispettivamente come maestro e nutrice di San Vito, martirizzato proprio sulle sponde del fiume Sele. Si tratta evidentemente di un'invenzione erudita.
Inoltre compaiono altri nomi di località “particolari”:
“S. Pietro”, che rimanda all'antico casale del capoluogo ed alla sue chiesa, anticamente detto “Casali di Rodigliano di S.Pietro” o anche più semplicemente “li Casali di S.Pietro”; “Zappulo”, presunto toponimo probabilmente connesso alla antica famiglia capaccese degli Zappulli. Ritroviamo traccia di questa famiglia a Capaccio Paese nell' “Arco Zappulli” nei pressi di Piazza Orologio, che era uno dei “quattro pizzi” (Casecappolla) ricordati da un'antica poesia capaccese (8);
il casale “Campo Eliseo”, anch'esso sarebbe riconducibile ad un'omonima antica famiglia capaccese quella degli Eliseo, che ritroviamo quale odonimo nel Capoluogo, Via Eliseo, ma anche nella piana, come Via Cerro-Eliseo.
Altro aspetto caratteristico della mappa, manifesto errore, è la duplicazione dello specchio d'acqua dove sorge il Capodifiume, che è reso in mappa come “Capo di Acqua” e come “Capo Fiume”, con relative derivazioni di un corso d'acqua dove solo uno è denominato come “Salso”.
La Capaccio sul Monte Calpazio, ovvero Caputaquis, è indicata sulla mappa come "Novo", cioè "nuova".
Cosa che a noi contemporanei appare come un grossolano errore.
Eppure in tutte le carte geografiche sino alla fine del XVII secolo troveremo sempre indicate le due Capaccio come invertite nelle denominazioni di "Nuovo" e "Vecchio"
La spiegazione più diffusa è che si tratti di un errore di qualche “cartografo” del passato, poi ripetuto da quelli posteriori, compreso l'estensore (o gli estensori) della presunta carta aragonese, sempre che, se questa mappa non è un falso settecentesco, non ne sia proprio l'origine.
La spiegazione di tale inversione può però anche essere diversa e cioè che non si tratti di un errore.
Già Fernando la Greca segnala la possibilità che “si potrebbe avanzare un'altra spiegazione, basata non su una improbabile confusione, ma su una diversa evoluzione dell'onomastica locale. II centro distrutto, che noi oggi chiamiamo Capaccio Vecchio, era chiamato al suo sorgere "Capaccio Nuovo", come certificano le carte geografiche (sol che le si voglia prendere sul serio), e come risulta da numerose pergamene di Cava” (9).
Ma è possibile pure immaginare molto più semplicemente che Caputaquis fosse “nuova” rispetto ad un primo insediamento proprio alle fonti del Capodifiume, dove vi era l'abitato, non per nulla detto, “Casavetere di Capaccio”. Da qui il nome “Capo d'Acqua” (o Caput Aquae") si sarebbe poi traslato sul nascente centro fortificato sul Monte Calpazio, cioè Caputaquis.
Ciò però non spiegherebbe, se non per un altro probabile errore del geografo, perché Capaccio Capoluogo viene detta "Vecchia" rispetto a quella sul Monte Calpazio.
Infatti sappiamo con certezza che "li Casali di S. Pietro" o "di Rodiliano" cominceranno a denominarsi Capaccio solo nel XV secolo, mentre in età aragonese tale cambio era già un fatto compiuto.
È possibile quindi che questo cambio ormai radicato al tempo della presunta redazione della mappa aragonese, ma anche di quelle successive, possa essere la causa di un'apparente inversione, che potrebbe trovare le sue origini sia nella indicazione delle carte cavensi di una "civitas nova" in Caputaquis (10), sia in una possibile maggiore antichità dell'abitato del Capoluogo rispetto a quello sul Monte Calpazio.
Noto è che gran parte degli studiosi, con qualche eccezione (11), sono convinti che Caputaquis, come luogo abitato, non sia sorto prima del IX o X secolo. Diversamente dei primitivi casali di Capaccio Capoluogo molto poco si sa, se non che per tutto il medioevo tale località è appellata come Rodigliano (Ridiliano, Rediliano). (12)
Si è osservato come tale toponimo possa essere un gentilizio romano. Cosa che potrebbe fare ipotizzare antiche frequentazioni del sito e la presenza di una villa romana.
Già Vincenzo Rubini, noto cultore di storia locale del passato, testimoniava la presenza in loco di numerose fosse per il grano, che egli considerava di età romana e che in alcuni casi erano ancora usate al tempo della sua gioventù.
Se ciò fosse corretto nulla potrebbe non farci pensare che qui, in età tardo antica, fosse sorta una plebs, che ebbe nella primitiva chiesa di San Pietro il suo centro.
Inoltre Capaccio compare tre volte, se contiamo anche l'indicazione "S. Pietro".
Se poi guardiamo ai rilievi collinari notiamo ancora dei grossolani errori.
Abbiamo un "Monte Capo di Acio" che è una duplicazione del Calpazio, già riprodotto più in piccolo, là dove sorge la città, rappresentata come murata, di "Capaccio Nova". Interessante il riferimento all'Acio/Accio, altro nome antico del fiume Capodifiume.
Inoltre il "Calimarco" dovrebbe essere il Calpazio, mentre tale nome è attribuito al Monte Soprano.
Il Monte Sottano non pare essere raffigurato, sempre che non lo sia stato come "Monte Canicna", corruzione forse del classico "Cantenna", nelle cui vicinanze compare "Trentenara". Potrebbe trattarsi di una duplicazione/confusione tra i due monti, il Sottano e quello di Trentinara, rappresentato anche più in piccolo con alle sue falde Giungano.
Il Capodifiume appare come confluente nel Solofrone. Indicazione questa, che ritroviamo anche in molte altre mappe antiche, e che pare non infondata almeno per un suo ramo.
Alla confluenza dei due fiumi troviamo un insediamento denominato "Rillio" e verso est un altro.
Ultimo aspetto della presunta carta aragonese da trattare è quello relativo alla città di “Pesto”:
“ La città è disegnata in pianta ovale, con sei torri murarie, di grande estensione, e con numerose case all'interno, oltre ad una chiesa e ad un edificio rettangolare che potrebbe suggerire il profilo di un tempio; inoltre, essa appare dotata di due acquedotti, provenienti l'uno da Capo di Aqua e l'altro da Capaccio, e di un collegamento murato con un edificio sul mare, forse per l'ingresso e l'uscita dalla città mediante un percorso protetto” (13).
Tale rappresentazione della città antica anche se ideale, o meglio fantasiosa, ci mostra che però gli autori di questa presunta mappa aragonese erano a conoscenza delle cinta muraria ed anche della presenza della Chiesa dell'Annunziata, che come abbiamo detto più volte, mantenne un ruolo di aggregazione religiosa e sociale nel tempo. Non solo era luogo di riferimento per tutti coloro che lavoravano nella piana per tutti quegli aspetti legati alla vita religiosa, ma qui vi si tenevano anche delle importanti fiere, che richiamavano mercanti da ogni dove. Come non è da escludere che proprio a Paestum vi si insediasse stagionalmente un piccola comunità per tutto quanto atteneva i vari interessi legati alla piana. In ultimo la torre collegata alla città da un improbabile camminamento protetto è quella sita sul lido di Paestum, che fu anche luogo di caricamento e scarico merci da e per Salerno e Napoli ma anche per diverse località del Mediterraneo occidentale e dove il feudatario, il Conte di Capaccio, esercitava i diritti di portolania.
In conclusione possiamo esprimere un'opinione su tale mappa "aragonese", certamente di poco conto, essendo io un appassionato di storia locale più che un esperto.
Dalla ricognizione dei particolari di tale mappa su scala locale, indipendentemente se si tratta di un falso settecentesco o di una copia tarda di un originale quattrocentesco, possiamo affermare che di certo non fu espressione di un lavoro sul campo, ma di uno fatto a tavolino sulla base di fonti etorogenee letterarie e documentali. Gli errori e le possibili "invenzioni" ci fanno supporre una sua redazione da parte di uno o più eruditi, che "assemblavano" le diverse informazioni raccolte senza avere reale cognizione dei luoghi. Probabilmente sulla base di carte geografiche precedenti su cui venivano aggiunti particolari ricavati da fonti letterarie e forse documenti antichi.
Di ciò ne sono interessanti indizi diversi particolari, il cui ricordo poteva sopravvivere al tempo della redazione della mappa o nella memoria popolare o tra le righe di documenti antichi.
L'imponenza di tale lavoro fatto su tutto l'allora Regno di Napoli, mi fa pensare ad un lavoro collettivo a più mani.
Altro aspetto interessante è che questa cosiddetta carta aragonese ha diverse somiglianze con quella realizzata da Giovanni Antonio Rizzi Zannoni per Mr. Dumont in “Les ruines de Paestum autrement Posidonia” del 1769, intitolata “Carte de la ville et des environs de Poestum”.
Che Rizzi Zannoni abbia consultato le carte dell'Abate Galliani?
Dubbio del tutto lecito alla luce delle numerose somiglianze. Pare infatti che proprio su queste cosiddette mappe aragonesi, rinvenute e ricopiate dal Galliani in Francia, il Rizzi Zanoni abbia potuto comporre la "Carta Geografica della Sicilia prima o sia Regno di Napoli", in quattro fogli del 1769.
Nel prossimo post accenneremo alle rappresentazioni geografiche della Piana di Capaccio nel seicento.
Note
(1) Giovanni Vitolo (a cura di), La rappresentazione dello spazio nel Mezzogiorno aragonese. Le mappe del Principato Citra, pag. 5, La Veglia & Carlone, 2016.
(2) La Greca F., Valerio V., Paesaggio antico e medioevale nelle mappe aragonesi di Giovanni Pontano, Le terre del Principati Citra, pag. 59, Centro di Primozione Culturale per il Cilento, Acciaroli (Sa), 2008.
(3) Valerio V., Le pergamene cartografiche aragonesi del Regno di Napoli: dubbi e certezze, in Vitolo G. (a cura di), La rappresentazione dello spazio..., op. cit., da pag. 9 e ss..
(4) Altra possibilità prospettata da chi presuppone l'autenticità di tali "mappe" è che queste passando di mano in mano nell'essere ricopiate si siano arricchite di particolari che in origine non avevano. Processo di ricompilazione continuato sino al seicento.
(5) Antonini G., La Lucania. op. cit., p. 189.
(6) Si veda anche ABC, XXXVII 38, 1180, XIV dove Giovanni vende la “quattuor partis” di tutti i suoi beni “in loco ubi Palma dicitur” alla Badia di Cava e all'Episcopio di Capaccio per once cinque di monete di Sicilia.
(7) Ebner P., Chiesa Baroni..., Vol. I, op. cit., pag. 615. Al di là della personale opinione del Di Stefano dovuta all'allora imperante preiudizio anti-federiciano, molto più probabilmente anche “Palma” seguì la sorte dei tanti villaggi e paesi desertificati con la Guerra del Vespro.
(8) Un'antica canzone popolare capaccese, che è un omaggio al paese, ma soprattutto alle sue donne, assegna a ciascuna per quartiere determinate caratteristiche: Capaccio bello, fatto a quattro pizzi, re' tutt'e quatto mme so' nnamorato, a Munticiello so li musi afflitti, a Santuliveto li scummunecate, 'nCasecappolla ng'è la rosa reccia, nmiezzo lu Lauro la rosa ngarnata, si vuoi sapè addò so le Bellizzi, ra lu Tempone fì a lu Capostrata. (da Gli antichi canti di Capaccio a cura di Vincenzo Rubini, pag. 29, Napoli, 1983.)
(9) La Greca F., Paestum e il suo territorio nella cartografia storica medievale e moderna, Annali Storici del Principato Citra, X, 1, 2012, pag. 79.
(10) Natella però interpreta la "civitas nova", come un nuovo quartiere fortificato aggiuntosi nell'XI secolo a quello più antico. In P. Natella, Il castellum Caputaquis fra documentazione e storia (933-1085).
(11) Diversamente da altri il prof. Mario Mello suggerisce un collegamento antichissimo e costante, sulla base di taluni ritrovamenti archeologici, tra il Monte Calpazio e la Paestum greca e romana. Immagina così che le frequentazioni greche e romane del Monte Calpazio, su cui troppo poco si sa, siano evolute già in età tardo antica in un possibile primitivo piccolo luogo abitato. A sua opinione la chiesetta ritrovata nel sagrato del Santuario della Madonna del Granato potrebbe essere molto più antica di quanto di solito in ambito medievista si presuppone. Osserva infatti che se A. Burko e P. Peduto la indicano come precedente al IX secolo, non sono però così certi da poter escludere che possa essere addirittura del VI secolo. In M. Mello, Da Poseidonia a Caputaquis medievale, pag.70, Ed. Tored, 2018.
(12) Ad esempio nel CDC, 9, pag. 105 (anni 1065/1072) compare un'altra variante "Ridilianum": "Ego Petrus filius quondam Mauri su[b]diaconi clarifico me habere rebus in locum Trintinaria et in locum RIDILIANUM UBI PROPRIO MONTICELLUM DICITUR et in locum Pazzano ..."
(13) La Greca F., Paestum..., op. cit., pp. 77 – 78.
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