sabato 16 novembre 2019

Il capostipite dei Doria, Conti di Capaccio e Principi di Angri.


Marcantonio Doria (1570-1651), in un ritratto di Antoon van Dyck (1599–1641), primo Principe d'Angri.
Il figlio, Nicola, sarà il primo Conte di Capaccio di questa antica famiglia di origini genovesi, con diploma datato Madrid 4 ottobre 1659 e reso esecutivo in Napoli nel 1660.
I Doria furono feudatari di Capaccio fino all'eversione delle feudalità nel 1806, restando comunque i maggiori proprietari del Comune di Capaccio, possedendone almeno la metà del suo territorio fino a fine ottocento.
Infatti gli eredi di Francesco I Doria, IX principe d'Angri ed VIII Conte di Capaccio (il figlio, Marino, Conte di Capaccio e le figlie Vittoria, Teresa ed Anna Maria) venderanno gli ingenti patrimoni terrieri ereditati (Spinazzo, Cortigliano, Cafasso, Gromola, Barizzo, Foce Sele e Bracciale) agli esponenti del nuovo ceto borghese agrario (Bellelli, Ricciardi, Pinto).



sabato 9 novembre 2019

DA CAPUTAQUIS A CAPACCIO NUOVA.

Con la conquista del Regno di Napoli da parte degli Angioini, le condizioni della città di Caputaquis e del suo territorio rimasero sostanzialmente immutate. Se differentemente dalla narrazione popolare con l'epilogo della "Congiura di Capaccio", la città non fu distrutta, ma nemmeno abbandonata, è anche vero che il nuovo monarca angioino, già subito dopo la battaglia di Benevento, fece ricostruire il castello di Capaccio, che nel 1268 veniva affidato alla custodia del castellano Stefano.

Capaccio Vecchio dall'Atlante di F. Cassiano de Silva.



Nel corso del Duecento la Piana di Paestum era, rispetto alle aree circostanti, ancora un'area privilegiata, sia per il perdurare in esso dell'opera dei Benedettini sia per l'operosa fattività dei suoi abitanti.
Comincia a prendere piede l'allevamento bufalino sin allora marginale, ma sempre minoritario rispetto a quello bovino o suino, anche se la prima menzione documentale della presenza delle bufale nella nostra Piana pare sia quella del 1052, legata ai pagamenti in natura che il monastero basiliano di “Sancta Beneri de locum Cornito” (cioè l’attuale Santa Venere) doveva alla Chiesa di Santa Sofia in Salerno. 

Capaccio Vecchio
(Archivio Agorà dei Liberi)



Capaccio Vecchio da Caputaquis Medievale I


L'irrompere nel territorio verso la fine del secolo della "Guerra del Vespro" (1282-1302), che vide proprio nella parte meridionale della provincia di Salerno svolgersi per 13 anni continui le fasi più aspre, lunghe e determinanti dello scontro terrestre fra Angioini ed Aragonesi, produsse la sistematica distruzione dei villaggi, delle colture, del patrimonio zootecnico ed un pauroso calo demografico, valutabile in circa l'80% della popolazione (1).

Non poteva essere altrimenti dato che proprio la Piana di Paestum ed il vicino Cilento divennero i luoghi dei più aspri e duri confronti tra le truppe angioine, guidate da Ruggiero e Tommaso Sanseverino, e quelle aragonesi. 
La linea del fronte si dispiegava dall'interno alla costa: da Marsico, Sala, Contursi, Eboli, a Capaccio ed Agropoli.
A sud di tale linea, divenuta la nuova frontiera degli Angioini di Napoli, gli Aragonesi insediarono guarnigioni stabili nelle principali località occupate ed affidarono il proseguimento della guerra a truppe scelte di fanteria: i tristemente famosi Almugàveri. 
Così il conflitto si trasformò in guerriglia, condotta soprattutto a danno dei villaggi, dei casali e dei paesi nei pressi della linea del fronte. La quasi totalità dei centri abitati subì rapine e danneggiamenti, molti si spopolarono, alcuni andarono completamente distrutti, saccheggiati ed arsi. Costantemente a caccia di bottino, di viveri e di donne, gli Almugàveri ridussero quei paesi ad una condizione ben peggiore di come l'avevano lasciate i Saraceni alcuni secoli prima.

Il settore più tormentato della frontiera fu però quello occidentale, lungo la costa . 
Da Castellabate gli Almugàveri arroccati nel castello non solo corsero a saccheggiare ed a distruggere molti casali della Badia di Cava e della Baronia del Cilento, ma compirono anche ripetute incursioni fin sotto Agropoli e Capaccio, i cui castelli erano le roccaforti degli Angioini.

Il Castello di Caputaquis
(da Caputaquis Medievale II)

Non deve sorprendere quindi che la città di Caputaquis, costantemente minacciata ed insidiata, si spopolasse e che suoi abitanti cercassero rifugio in altre località più sicure. Difatti la città non aveva una cinta muraria a difesa di tutto l'abitato, che nel corso degli anni di lunga pace era cresciuta con la nascita di un nuovo quartiere popoloso fuori le mura (detto la "Civitas Nova") e che dovette essere il primo a subire gli affronti della guerra. 
Come ad essere travolti dalla guerra furono anche i diversi villaggi e casali che sin allora avevano popolato la piana. Situazione che peggiorò ulteriormente quando nel 1295 il castello di Agropoli cadde momentaneamente nelle mani degli aragonesi, facendo proprio della piana di Paestum il luogo di terrificanti battaglie.
Non a caso Caputaquis (Caput Aquium), ma anche "Ritilianum" (o meglio Ridilianum/Rodigliano, cioè la futura Capaccio Nuova), Carratellum, Trentenaria, Albanella, Altavilla, Silifone e Convingenti sono tra i castra, terre o loca che erano stati esentati dopo la guerra dal pagamento parziale o totale delle Generalis Subventio o da altri tipi di imposte per le distruzioni subite.
La conseguenza, però, più lunga e deleteria di questa guerra fu la malaria, il morbo che a detta di alcuni studiosi sino ad allora era ancora sconosciuto (2), e che, divenne endemico per secoli in modo irreversibile nel territorio, perdurandovi fin quasi ai nostri giorni.

Particolare di una presunta mappa aragonese (XV sec.)


Se le devastazioni della Guerra del Vespro ed il conseguente spopolamento incisero profondamente non solo nella Piana di Paestum, ma anche nel vicino Cilento, tanto che non furono pochi i villaggi e casali scomparsi, l'impaludamento susseguente all'abbandono di vaste zone del territorio, dovuto anche al continuo e costante disboscamento, favorirono, come abbiamo accennato, la diffusione delle febbri malariche, che a loro volta innescarono un nuovo ed irreversibile processo di
spopolamento che caratterizzerà i periodi successivi.

Lo spopolamento della Piana, porterà anche all'inizio della decadenza della città di Caputaquis, proprio perché venne a perdere quel ruolo baricentrico e funzionale ai vari centri abitati ed attività economiche presenti nella piana.

La Piana Pestana da una mappa "erudita" settecentesca.


La conclusione politica della guerra del Vespro, ratificata nel 1302 con la pace di Caltabellotta, coincise con l'inizio del periodo più nefasto per la regione, giacché nell'arco di tempo compreso fra il regno di Roberto d'Angiò e quello di Giovanna II, praticamente per tutto il XIV secolo ed oltre, "il territorio venne funestato da una paurosa serie di sventure: dai nuovi conflitti contro i nemici esterni, alle lotte delle fazioni interne, dall'azione devastatrice delle bande armate locali all'avvicendarsi delle compagnie di ventura che percorrevano per proprio conto la regione, dalla pirateria degli aragonesi di Sicilia a quella degli abitanti della costa amalfitana, dalla carestia del 1343 alla peste degli anni 1348, 1383 e 1401 nonché ai terremoti del 1349 e 1401". (3)

Se alla fine della guerra la città di Caputaquis apparentemente sembra riprendersi, e i guasti della guerra riparati, essa comincia comunque un inesorabile declino, avendo perso il suo stesso motivo di essere, quale centro politico, amministrativo ed economico di quella vasta rete di abitati ed attività economiche insistenti sulla sua piana. 
Lungo tutto il XV secolo Caputaquae comincia lentamente a spopolarsi, arrivando quindi al secolo successivo ad essere abitata da poche famiglie:

"...Nel 1493 abitavano in Capaccio Vecchio molte famiglie, le quali formavano Corpo di Università, ed il nuovo Capaccio a quell'epoca appellavasi Li Casali. 
A poco, a poco ed anno per anno nel tempo avvenire gli abitanti della Città l'abbandonarono, e si ritirarono ne' Casali, dando a questi il nome di Capaccio Nuovo, ma non furono avveduti di trasferire con loro la Cattedrale  ... in Capaccio Nuovo:
sebbene io credo esserne stata la cagione il non averla, come i Pestani, abbandonata in una volta, ma a varie riprese."
A scrivere è il Canonico Giuseppe Bamonte ne "Le antichità Pestane" opera che diede alle stampe nel 1819.
Lo  dice in base ad una "platea", datata (in quella parte) 19 maggio 1493, da lui consultata, da cui trae delle notizie assai sintetiche.
Una platea, in questo caso, nulla è, se non una descrizione ed inventario "delle cose, beni", luoghi, "e giurisdizioni della Chiesa Cattedrale di Capaccio sotto il titolo di S. Maria Maggiore".
In questa platea nella descrizione dei luoghi inevitabilmente vengono indicate beni e persone all'epoca ancora residenti nell'antica città di Caputaquae.
Ciò ci indica, con numerose altre evidenze documentali,  ma anche archeologiche, che la città di Caputaquis si spopolò durante un lungo processo iniziato intorno al XIV secolo e terminato nel XVI sec.. 
  
Ciò spiega il perché nel 1580, il vicario apostolico Orazio Fusco, pretendendo che i canonici risiedessero presso la Cattedrale, restaurata dal precedente Vescovo, Podocatario, e trovando l'opposizione di questi proprio a causa della sede ormai disagiata, immaginò di rivitalizzare la città chiedendo agli abitanti di Capaccio Nuovo di trasferirvisi. I Capaccesi riunitisi nel “parlamento”, organo deliberativo delle Universitas Iuris Gentium (in pratica i comuni) posero però delle condizioni e cioè che gli fossero concessi privilegi dal Papa e dal Re, tra cui le esenzioni fiscali (4).
L'epilogo lo possiamo immaginare: non se ne fece nulla.

Dello spopolamento di Capaccio Vecchio se ne avvantaggiarono i centri abitati più interni e collinari, in particolare quello che oggi è ricordato come “Li Casali di San Pietro”, ossia Capaccio Nuova, che comincerà a dirsi così solo alla fine del XV secolo. Ciò trasse in inganno lo storico P. Cantalupo che nella sua opera “ I limiti territoriali della Diocesi di Capaccio” analizzando le “Rationes decimarum ltaliae” relative agli anni 1308-1310, cioè il registro con l'elenco degli enti religiosi che in tale periodo erano tenuti a pagare le decime alla Chiesa di Roma, non vi trovò stranamente menzionata Capaccio Nuova con la sua chiesa, quella di San Pietro, senza accorgersi che era invece menzionata come “Redigliano” ("Casali Rodiliani" o "Redoliani"), toponimo che ancora sopravvive nel Capoluogo, come Rodigliano, e che ritroviamo menzionato anche nel Codex Diplomaticus Cavensis. (5)





NOTE:

(1) In Cantalupo P.,  Il feudo vescovile di Agropoli (XI-XV secolo)...
(2) Stranamente le fonti classiche, che di molte cose del nostro territorio dicono, sulla presenza della malaria , che dovrebbe essere stata endemica già allora, tacciono. A rimarcare poi tale misterioso silenzio delle fonti storiche "vi è l'incontrovertibile constatazione che la Scuola medica salernitana, pur nella sua notevole casistica medioevale di malattie e cure, non conobbe questo specifico male sia sotto il profilo diagnostico che curativo" (Cantalupo P., Vino e vigne nel Medioevo).
(3) Cantalupo P., Il bufalo nella storia e nell'economia del Salernitano.
(4) Ebner P., Chiese Baroni e Popoli del Cilento, II.
(5) Nel CDC, 9, pag. 105 (anni 1065/1072) compare un'altra variante "Ridilianum": "Ego Petrus filius quondam Mauri su[b]diaconi clarifico me habere rebus in locum Trintinaria ET in locum RIDILIANUM UBI PROPRIO MONTICELLUM DICITUR et in locum Pazzano …". Pare chiaro così che la dizione Ridilianum indica un territorio più ampio e che quindi Monticellum è una località specifica di Ridilianum.


mercoledì 6 novembre 2019

LA PIANA DI PAESTUM TRA TARDO ANTICO ED IL PRIMO MEDIOEVO




Sulla fase di formazione di vasti latifondi in età imperiale nella Piana di Paestum sappiamo assai poco. Scarse o nulle le notizie delle fonti, pochi sono anche i ritrovamenti archeologici su cui tentare di ricostruire le strutture e le dinamiche economiche e sociali dell'epoca.

Sappiamo però che ogni latifondo era sostanzialmente una grande fattoria, con la “villa rustica” come suo nucleo, dove la mano d'opera era costituita essenzialmente da schiavi.

Il latifondismo in età imperiale si sviluppò attraverso un processo di concentrazione delle terre agricole: i piccoli proprietari nella necessità di vivere dell'agricoltura mista non potevano rivaleggiare sul mercato con i latifondi. Ciò determinò anche che buona parte delle terre fu trasformata in pascoli gestiti da schiavi con il ruolo di pastore.

La produzione era specializzata, a seconda della regione, nella produzione di vino, cereali o olive.
Esistevano anche latifondi specializzati nell'allevamento del bestiame; tipicamente situati nei territori della Magna Grecia e in Sicilia.

A Capaccio Paestum “villae” di età imperiale sono state ritrovate in località Gestemani sulla collina di Capaccio e in località Andreuolo a poca distanza a nord dell'Area Archeologica di Paestum.
L'analisi dei toponimi, in particolare quelli medioevali contenuti nei documenti conservati presso la Badia della SS. Trinità di Cava de' Tirreni, ce ne restituisce alcuni di probabile derivazione da gentilizi romani: Valenzano (più tardi Balenzano), “Pazzano”, Rodiliano o Rediliani (l'attuale Rodigliano) o meglio il primitivo nome di Capaccio Capoluogo.

I manufatti ceramici e i frammenti di muri affioranti, testimoniano una frequentazione del territorio rurale e ci consentono di immaginare il paesaggio medievale definito dal susseguirsi di insediamenti sparsi, il cui centro di aggregazione è costituito da piccole chiese.
Di questi villaggi ve ne erano numerosi lungo il Sele, un fiume pescoso e per un lungo tratto navigabile, che poteva essere attraversato in alcuni punti mediante una scafa trainata da muli e che già in età romana era dotato di un porto, il Portus Alburnus.

Di alcuni di questi insediamenti i documenti forniscono i nomi: S. Agata, S. Aniello, S. Barbara, S. Leonardo; tuttavia le indagini compiute nella zona a partire dagli anni ’70 da Paolo Peduto, hanno portato all’individuazione dei centri di aggregazione cultuale di alcuni di questi insediamenti, le così dette parrocchie, o ecclesiae baptismalis o ancora plebes, che tra V e VII secolo sorsero nel territorio per la “cristianizzazione” delle campagne. In alcuni casi queste aule di culto furono realizzate su precedenti edifici tardo romani, come per le chiese di S. Giovanni in Fonte, presso Padula nel Vallo di Diano, o di S. Giovanni di Pratola Serra nell’avellinese, o ancora per l’anonima chiesa, anch’essa con battistero, a Ponte Barizzo.

La fonte battesimale, risalente al V o al VI secolo dopo Cristo, parte di una chiesa con annesso complesso cimiteriale che era sita nell' attuale Ponte Barizzo.

Tali chiese, impiantate talvolta sui resti di ville rustiche, furono rette da un presbitero nominato dal vescovo e dotate di quegli ambienti e spazi necessari per poter espletare le funzioni pubbliche alle quali erano preposte: dal battesimo, all'educazione dei fanciulli, alla cura degli anziani, fino alla sepoltura; spesso intorno a queste plebes avvenivano scambi e mercati. Presso tali piccole chiese rurali i vescovi dovevano necessariamente recarsi durante l’anno per assolvere ad alcune funzioni, come il battesimo e la cresima, per i quali non potevano delegare i presbiteri.

Qui lungo il corso del fiume Sele, poco più a monte dell'attuale Ponte Barizzo, è stato localizzato un complesso ecclesiastico altomedievale con annessa vasca battesimale e cimitero, quasi completamente distrutto dagli sbancamenti agricoli. Frammenti di materiale ceramico affioranti testimoniano una frequentazione del sito a partire dal I-II secolo d. C. al IV e dall’VIII-IX fino al XIV.
L’edificio cultuale fu realizzato con blocchi di travertino pestano, mentre successive modifiche vennero apportate mediante pietre e schegge di travertino di varia pezzatura.
Gli strati archeologici messi in evidenza ed i loro contenuti rivelano che le strutture altomedievali si innestarono sopra altre di epoca tardo-imperiale.
La chiesa di Ponte Barizzo sorse, nei pressi del luogo che ancora oggi è detto Maida, toponimo germanico che indica il quadrivio, lungo la strada che dalla vicina scafa sul fiume conduceva verso Paestum e Capaccio Vecchia.
Questa chiesa aveva di fronte all'ingresso dell'aula principale il battistero con la fonte battesimale per immersione, mentre tutto attorno vi era il sepolcreto.

Nel Medioevo esistevano numerosi attracchi lungo il Sele, ancora oggi in gran parte navigabile, ma allora di ben altre dimensioni. Tali approdi dovevano essere disposti nei pressi dei casali ricordati dalle carte notarili, come il casale di S. Nicola a Mercatello, che viene concesso ad Andrea Massacanica “cum portu fluminis ipso casali propinquo” (1), e il villaggio dove sorgeva la chiesa di S. Vito.

San Vito al Sele (Eboli, SA). Planimetria dello scavo. (Da MELLO, 2001, p.118).

Proprio risalendo il Sele, sulla riva destra, in località Santa Cecilia, sorge la Chiesa dedicata al santo martire Vito (2), in precedenza sulla sponda sinistra del fiume.
Qui anticamente vi doveva essere un vero e proprio insediamento abitativo di cui la piccola chiesetta era parte. L'attuale impostazione architettonica della chiesetta è il frutto delle successive rielaborazione di quella romanica di età medioevale, ma anticamente essa si doveva presentare ben diversamente come attestano i sondaggi effettuati dall'Università degli Studi di Salerno tra il 1987 ed il 1992, che hanno rivelato una struttura, con un mosaico del V – VI secolo d. C., identificato come parte di un sacello cristiano.
Frequentazioni più antiche sono attestate da ulteriori ricognizioni archeologiche che vanno dal I – II al VI e VII sec. d. C.. Frequentazione dei luoghi che sarebbe continuata sino in età alto-medioevale quando l'antico approdo fluviale ivi presente si sarebbe insabbiato a causa delle esondazioni del Sele.
Sulla sinistra Sele, invece, presso l'attuale Pontebarizzo sarebbe stata rinvenuta i resti di una fonte battesimale datata tra il VI ed il VII sec..

La Chiesa di San Vito sul Sele.
Fonte Archivio Ebad.

Diversamente da quanto comunemente creduto pare che ancora nel VI sec. d. C. la pianura pestana nonostante il suo generale stato di degrado abbia ancora margini di vitalità se da una lettera di Cassiodoro del 508-511 appendiamo che Teodorico ordinò ai proprietari di navi della Lucania di trasportare in Gallia prodotti di varia natura per aiutare quelle popolazioni sofferenti per una brutta carestia.

Una temporanea ripresa dell'economia e dei traffici in tutta la regione durante la seconda metà del III secolo, era stata promossa dai lavori di sistemazione della via Annia, dalla riforma operata da Diocleziano in campo economico ed amministrativo ed è documentata da una ricca circolazione monetaria, durata fino ai tempi dell'imperatore Arcadio (395-408). Ciò non aveva impedito comunque che il patriziato abbandonasse le città e si ritirasse nei possedimenti di campagna, quelle
ville rustiche situate per lo più lungo le pendici collinari a ridosso delle aree pianeggianti.

Verso la fine VI sec. d. C. l'antica città di Paestum è ormai in piena decadenza.

Dell'antica città nulla rimane se non un piccolo villaggio prevalentemente arroccato intorno al tempio comunemente detto di Cerere, ma anche da piccoli nuclei abitativi sparsi, “a macchia di leopardo”. Nuovo insediamento realizzato essenzialmente con materiale di riuso.

L'Athenaion è trasformato in basilica cristiana e prima cattedrale e vicino ad essa doveva sorgere il complesso episcopale (3).

Poco distante l'attuale Chiesa dell'Annunziata, allora basilica cimiteriale, era costituita da un'unica navata, che poi diventeranno tre nel rifacimento romanico dell'XI secolo.

La Chiesa dell'Annunziata di Paestum prima dell'ultimo restauro.

L'accentrarsi e lo stringersi della comunità pestana intorno al Tempio di Cerere è probabilmente dovuto al fatto che esso sorge su uno dei punti più alti, mentre la restante parte della città, come anche pare l'intera Piana, viene interessata, per alcuni, sin dal I sec. d. C., da un progressivo impaludamento.

Sulle cause si discute ancora e vanno da un'ipotetico bradisismo al semplice ristagno delle acque incrostanti del Capodifiume nella città.

Secondo il Maiuri le acque del Capodifiume penetrarono attraverso il varco di Porta Marina, depositando spessori crescenti di travertino fino ad un massimo di 5 metri nei punti più depressi. Le acque dilagavano anche intorno ai templi, incrostando il lastricato stradale e l'abitato medioevale.

Di certo non estraneo al generale impaludamento della piana pestana fu l'intensivo ed indiscriminato disboscamento imputabile all'estensione sempre maggiore del latifondo e delle terre da pascolo e alla massiccia richiesta di legname per uso edile e navale. Di conseguenza il fiume Sele spogliato di quel manto boschivo, di cui parla anche Virgilio, aveva esondando e modificando il suo percorso nel tempo dando vita tra il suo alveo e le mura della città antica ad un susseguirsi di acquitrini, di cui i nomi di alcuni di essi ritroviamo in tanti documenti d'epoche diverse: Sele Morto, Codiglioni, Vadulata, Cerzagallara, Laura. Ciò aveva prodotto l'abbandono della via litoranea che, attraverso Paestum e la foce del Sele, collegava il massiccio del Cilento Antico con Salerno; i contatti lungo la costa erano rimasti affidati quasi esclusivamente alle vie marittime.

Particolare della Tabula Peutingeriana, copia del XII-XIII secolo di un'antica carta romana, mostra le vie militari dell' impero romano. 

Probabilmente è da riferire all'incremento delle colture specializzate, particolarmente del vigneto, se nella seconda metà del IV sec. si era determinata una sovrabbondante produzione enologica, tanto che la quantità di vino che i Lucani erano obbligati a portare a Roma era stata allora prima convertita in un corrispettivo in carne suina, indizio anche della diffusione dell'allevamento brado, poi in un corrispettivo in denaro, incontrovertibile testimonianza, quest'ultima, di una regolare circolazione monetaria. Mentre le città entravano allora nel pieno della loro decadenza, spopolate ed oberate dai prelievi fiscali imperiali, nella regione si era andato diffondendo il cristianesimo, contrastato dai culti pagani, che nel IV sec. erano ancora fortemente vitali.

Le invasioni barbariche incominciarono a raggiungere il Meridione nel 410 d. C. con le orde dei Visigoti, i primi a penetrare in quell'anno nel territorio salernitano, dove assediarono inutilmente Salerno, ma che, nel proseguire la loro marcia verso il Sud, inflissero danni a tutta la regione, dalle zone del Picentino ad Eboli e per tutto il Vallo di Diano, tanto che l'imperatore Onorio dovette esentare, tra le altre, anche le popolazioni della Lucania dal pagamento di una gran parte dei consueti tributi.
A partire dal 439 d. C. le zone litoranee del Tirreno subirono le periodiche incursioni dei Vandali insediati sulle coste dell'Africa, con l'eccezione delle città fortificate, quali Paestum, Velia, Molpe, Bussento.

La diaspora dei fuggiaschi verso posizioni più sicure, quasi sempre verso l'interno del territorio, portò all'incremento delle “villae” e delle “massae”, ma il generale contraccolpo economico si avvertì nelle città che, paralizzate nelle attività produttive e commerciali, videro un ulteriore calo demografico ed una diminuita circolazione monetaria.

Le successive invasioni barbariche, quella degli Eruli, che conquistarono Salerno, e dei successivi Goti di Alarico, non ebbero ulteriori impatti negativi sul territorio pestano.

Di fatto probabilmente come in ogni altra località dell'Italia meridionale continuò a persistere il sistema del latifondo, dominato dai “possessores”, sovente arbitri del destino di intere regioni, legati agli interessi dell'Impero occidentale prima, a quello di Bisanzio poi. Al loro sistema di gestione si allineò quello dei patrimoni fondiari della Chiesa, definiti dal termine “massa”, tuttora cosi frequente nella nostra toponomatica.

Paestum ormai agonizzante, perdeva l'egemonia sulle campagne circostanti.
Come molte antiche città dell'epoca in irreversibile crisi, anch'essa vide non solo la produzione ma anche la vita concentrarsi nelle ville rustiche o curtes dominicae, nelle massae, nelle condomae, nei vici posti a ridosso degli assi viari, in tutte quelle forme di aggregazione extraurbana che costituiranno poi sovente i primi nuclei dei villaggi medioevali. A completare lo scenario il prevalere degli allevamenti bradi che occuparono le aree sempre più vaste a dispetto dell'agricoltura.

A spezzare questo nuovo equilibrio economico e demografico della nostra Piana fu la terribile guerra greco-gotica, che proprio in Lucania (4) ebbe uno dei suoi scenari più cruenti.
 Questo tremendo evento però portava con sé i semi di una nuova rinascita. Con le truppe bizantine con funzione di supporto spirituale arrivarono anche i monaci greci (intendendosi con "greco" non la provenienza, ma la fede ortodossa), che svolsero un importante ruolo nella ripresa economica e sociale delle nostre zone sia con la rimessa a coltura di terre abbandonate che per la diffusione di nuove tecniche e tecnologie agricole.
Ad essi si affiancarono in seguito i monaci benedettini, che ebbero anch'essi un ruolo importante nello sviluppo economico e sociale del nostro territorio (5), che con i nuovi dominatori, i Longobardi, assicurarono alla nostra zona un lungo periodo di benessere (relativo ai tempi) che si protrasse sino a quasi la fine del XIII secolo, quando la guerra del Vespro, che contrappose le due dinastie degli Angioini e degli Aragonesi, creò un nuovo disastroso guasto del territorio.
Ma questa è un'altra storia.

Il cenobio basiliano di età alto medievale della Linora.
(Foto di Roberto Paolillo)



Note:
1) Il Sele all'epoca era molto diverso da come oggi lo vediamo. Oggi è solo il fantasma di ciò che era in passato ridotto nella portata delle acque dalle captazioni alle sue fonti a servizio dell'Acquedotto pugliese del Sele. La foce era a delta e il suo corso navigabile. Scrive il geografo arabo Al-Idrisi o Edrisi, vissuto a Palermo al tempo del re normanno Ruggero II, ed autore del trattato dal titolo “Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo”, noto anche come “Libro del Re Ruggero”: “Da questo (dal fiume Aso) al fiume Sele, dodici miglia. E' un fiume copioso d'acqua, nel quale entrano le navi. Le sue sponde sono difese da foreste e paludi, di maniera che offre entro terra sicuro ancoraggio alle navi ed ai legni da guerra. Dal Sele al Golfo di Agropoli, e poi all‟isola di Licosa, vicina alla terra e senza porto, venti miglia”
2) San Vito è il santo patrono del Comune di Capaccio Paestum.
3) Amedeo Maiuri che studiò il sito annota “Murati gli intercolumni ed abbattuti i muri della cella, si era trasformata in un'età imprecisata in una basilica cristiana”, Maiuri, 1986, pag. 64.
(4) L'antica Lucania iniziava proprio dal Sele, che ne era il confine settentrionale.
(5) I benedettini, che ebbero una loro primitiva comunità presso la Cappella di San Nicola a Casavetere di Capaccio, più o meno l'attuale borgo di Capo di Fiume, svolsero un importantissimo ruolo nella vita economica e sociale di Capaccio.
Contribuirono non solo a formare una cospicua comunità di contadini possidenti e quindi liberi attraverso la concessione di fondi in pastinato, recuperando terreni incolti, ma anche al miglioramento delle condizioni ambientali con opere di drenaggio ed irrigazione dei terreni. Inoltre i numerosi mulini che proprio i benedettini contribuirono ad edificare testimoniano una diffusa produzione di cereali, tali da essere commercializzati verso Salerno ed altre importanti mercati tirrenici.