sabato 17 agosto 2013

Storie minimali di borghesi di provincia nel Principato Citra.


 "Agone è l'inizio ch'il campo dove si combatte" (Paolo Majorino)



Cercando tra vecchi libri, mi è capitato questa copia de “La Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, stampato in Padova da Pietro Paolo Tozzi il 1628. Pur essendo antico, ha un valore economico modesto, ma ha importanza per lo studioso.
 

La particolarità di questo libro è che è stato testo di studio è come tale tramandato da una generazione all’altra. 

Chiarificatrice è la scritta vergata a mano alla pagina due:

"Il Principe de' Poeti d'Italia,
Testo dell'Italiana Nobile Favella,
Per esercizio
dell'Italiana triplicata Eloquenza,
Oratoria, Poetica, Storica,
letto, riletto, e notato
da Paolo Majorino di Napoli,
del giureconsulto Carmine
Figliolo."
 
Il libro è vergato da numerose note a compendio del testo. Annotazioni che si susseguono di generazione in generazione: l’esegesi dei versi, aneddoti e curiosità sul Tasso e sui personaggi dell’opera, riferimenti storici, ecc.

Lo scopo è dichiarato “per esercizio dell’italiana … eloquenza, oratoria, poetica, storica”.
E non manca lo sprone allo studio: "Agone è l'inizio ch'il campo dove si combatte".


E’ una testimonianza di quella borghesia di provincia, che nel paesello viveva “more nobilium” e in città esercitava le nobili professioni. Il Cilento, come Capaccio, ebbe una piccola e media borghesia degli affari, delle professioni, ma anche possidente ed agiata che traeva il suo sostentamento dalle rendite dei beni aviti. Talvolta accadeva che una generazione si dedicasse alle professioni liberali pur potendosi mantenere nella rendita.
Le attività manuali erano ritenute volgari, così i mestieri, che erano propri degli artigiani.
Di nascosto agli occhi dei famigli e degli estranei poteva capitare che il borghese, quello non molto facoltoso, potesse anche dedicarsi alla cura dei propri beni eseguendo ad
esempio delle riparazioni o piccoli lavori manuali. Cosa testimoniata in molti libri o memorie di famiglia.
Anche gli affari erano considerati cosa non onorevole, anche se di solito erano il trampolino di lancio (come anche l’amministrazione dei beni di qualche feudatario) per accedere allo status socialmente superiore, quello di chi aveva beni bastanti da permettergli di vivere di rendita.



 Ma nella piccola borghesia di provincia la cura dei propri beni era diretto interesse dal borghese. Questi annotava minuziosamente ogni cosa, trascrivendolo anche nei libri di memorie, in modo che le generazioni future conoscessero l’impegno e la storia di chi li aveva preceduti, oltre che le modalità d’acquisizione di un bene, così che non se ne perdesse la memoria, temendo sempre, sopra ogni cosa, eventuali cause legali che potessero metterne in dubbio la proprietà.

La ricchezza salvo casi particolari si creava generazione dopo generazione attraverso un processo di accumulazione e di concentrazione di questa nelle mani del primo figlio. Per gli altri giusto il minimo o un futuro da religioso.

Ma la cosa che più temeva il borghese era maritare una figlia. Significava fornire per questa una dote proporzionale al lignaggio ed alla ricchezza del futuro sposo. Certo, i matrimoni erano anche “affari”, un modo per consolidare il proprio status sociale e per rafforzare legami con altre famiglie, meglio se prestigiose. Accadeva quindi spesso che per le figlie “in eccesso” si aprisse la via del convento.

E fù così che nell’estate del 1712 un mio antenato, Antonio de Sierio (Di Sirio) sposò, Porzia, l’unica figlia di Cosimo de Majorinis (Majorino) della città di Montecorvino nel Principato Citra.

Enzo Di Sirio

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