venerdì 22 novembre 2013

La millenaria storia dei mulini di Capaccio Paestum: risvolti economici e sociali.

 di Enzo Di Sirio


Capo di Fiume
La prevalente attività cerealicola nella Piana di Paestum fece sì che numerosi mulini vi fossero presenti in ogni epoca.
Tanti i documenti d'epoca in cui sono descritti tali mulini a partire dal fondamentale Codex Diplomaticus Cavensis. 
La prima testimonianza storica è nel C. D. C. e risale al 963 d. C. e li localizza sul fiume Trabe, ai piedi del Monte Calpazio, dove era arroccata la città medievale di Caputaquis .
La presenza di altri mulini è attestata sempre nel Codex al 1036, in località "Murinianum", che farebbe pensare possa essere l'aggettivo derivato dal sostantivo mulino con sottintesa la parola "fundum".
Nel 1052 un altro mulino è segnalato sul basso corso di Capo di Fiume in localita "Cornitu".

Nell'aprile del 1041 l'abate della chiesa salernitana di S. Massimo a Tripualdo commissionava la costruzione di due mulini "in locum Paestum, ubi ad Sanctum Basili dicitur". I tempi per la messa in  opera erano assai stretti, almeno uno doveva essere pronto nel successivo mese di maggio, il secondo, possibilmente entro giugno. I mulini di cui si parla sono le note "Muline di Mare", che erano fornite di due mole ciascuna e dovevano essere in grado di poter lavorare giorno e notte. I concessionari avrebbero pagato il censo in natura (grano ed orzo) nel successivo mese di settembre provvedendo anche a loro spese al suo trasporto sulle spiagge salernitane. Le Muline di Mare restarono in funzione sino alla fine della prima guerra mondiale quando furono trasformate in centrali elettriche. 

Il Catasto Murattiano, ad inizio secolo diciannovesimo ne enumera ben otto (1). Cosa che testimonia non solo una grande produzione locale di granaglie quanto anche come questi mulini potessero servire anche le località limitrofe.
Nei primi decenni del trecento il Vescovo di Capaccio, Filippo di Santomango, concesse il Santuario di Novi Velia al Barone Tommaso di Marzana. Il corrispettivo in denaro venne versato dal barone ad un mercante salernitano Nicolò Solimena, che acquistò per conto della Mensa Vescovile alcuni mulini già in funzione a Capo di Fiume.
Tra i proprietari, oltre alla già citata Mensa Vescovile, vi erano i feudatari di Capaccio, cioè i Doria, ma anche la Commenda di S. Giovanni di Rodi e l'Amministrazione dei Beni Riservati a S. M., che subentrò alla Commenda nel 1816 nella proprietà di un mulino a Capo di Fiume.  

Dagli atti notarili si evince:


N° mulini Proprietari Località
1 Commenda di S. Giovanni Capo di Fiume
2 Mensa Vescovile di Capaccio Capo di Fiume
2 Famiglia Vita Capo di Fiume
1 Famiglia De Agelis Capo di Fiume
1 Feudatario di Capacio Capo di Fiume
2 Feudatario di Capacio Muline di Mare (Licinella)
4 Duca di Giungano Varco del Carro (Spinazzo)

Nel corso del settecento vi sono numerosi cambi di proprietà, come quello di G. Sica e dell'Abazia di S. Benedetto di Salerno (2). Ma la più importante per l'entità patrimoniale è quella del Duca di Giungano, che cede la Difesa di Spinazzo, con la vigna ed i quattro mulini annessi, più altre proprietà a Giungano (3).

Il numero dei mulini nel secolo successivo si ridurra a unidici.



N° mulini Proprietari Località
1 Michelangelo Bellelli Capo di Fiume
1 Gaetano Bellelli Capo di Fiume
1  Ex Feudatario di Capaccio Capo di Fiume
1 Fam. D'Alessio Capo di Fiume
1 Mensa Vescovile di Capaccio Capo di Fiume
2 Fam.Vita Capo di Fiume
2  Ex Feudatario di Capaccio Muline di Mare (Licinella)
2  Ex Feudatario di Capaccio Varco del Carro (Spinazzo)

Michelangelo Bellelli acquistò il Mulino di Capo di Fiume nel 1829 da Marcantonio Doria, Conte di Capaccio. Questi a sua volta dall'Amministrazione dei Beni Riservati a Sua Maestà, che in precedenza l'aveva acquisita dalla Commenda di S. Giovanni nel 1816, come appare dai "processetti" sul Catasto Murattiano (4).
Altro importante cambio di proprietà di un mulino è quello del 1861 tra l'Arcidiacono de Angelis ed il d'Alessio.

Dagli atti notarili del XVIII secolo appare che i mulini non venivano "condotti" dai loro proprietari, ma di solito dati in fitto e ciò sia che i proprietari fossero istituzioni, come la Mensa Vescovile o la Commenda di San Giovanni, che nobili, quali il Conte di Capaccio o il Duca di Giungano, ma anche borghesi che vivano more nobilium, come per le famiglie Vita o de Angelis.  

La locazione di un mulino cominciava con un'asta.
Questa era condotta da un notaio con il metodo della "candela". L'asta era di solito preceduta con una vera e propria pubblicizzazione della stessa con "banni" e con "l'affissione di editti nei soliti luoghi".
L'incanto si teneva in mattinata nella pubblica piazza, che a Capaccio doveva essere nei dintorni dell'attuale Piazza Orologio, dove sorgeva la cattedrale.
Ad ogni nuova offerta si accendeva una candela e se non ne arrivavano di nuove prima che la stessa si consumasse vi era l'aggiudicazione. Quindi il notaio procedeva a stilare il contratto di locazione.

Questi atti notarili hanno di solito una tipica modalità di compilazione: la descrizione del mulino, la sua ubicazione, le condizioni, il prezzo e le modalità di pagamento.
La descrizione, in genere, si limitava alla menzione della ruota di legno, della mole di pietra, di due martelletti di ferro e di generici "altri ordigni necessari da poter macinare grano, od altro" (5).

La durata del fitto era in genere di tre anni. Un eccezione da me riscontrata è quella della locazione dei mulini di Varco del Carro da parte del Forlano (6) ai fratelli N. e P. Barlotti nella seconda metà del XVIII secolo.
Il fitto generalmente pagato in natura (grano) o parzialmente in moneta (7) era corrisposto in rate mensili.
Draconiane le condizioni di pagamento poste dalla famiglia Vita. Questa esigeva che le rate fossero pagate puntualmente, e fin qui nulla di strano, però poi aggiungeva nelle postille: senza alcuna eccezione "tanto in caso di peste, ovvero guerra...quanto di ogni altro impedimento e caso fortuito, divino ed umano".

Importanti le clausole per la manutenzione dei mulini. Usualmente quando la spesa era inferiore ai 5 carlini era a carico dei conduttori, altrimenti del proprieterio.

Altre particolari condizioni le troviamo sempre nel contratto di fitto dei mulini in Capo di Fiume della famiglia Vita.
  1. I conduttori devono "teneri netti l'acquari di detti 2 mulini ed espurgarli in caso contrario il signor Vita a loro spese possa far pulire e nettare detti due mulini da altre persone" (8).
  2. Qualora "non vi sia grano da macinare in detti mulini debbano detti conduttori subito calare li trappeti dell'acquari affinchè si asciugano le ruote di legno e che ogni volta mancheranno di farlo debbano pagare, al detto sig. Vita, carlini 5".
  3. I conduttori "debbano mantenere netti e puri di ogni cosa immonda" i mulini, "la casa sottana", la torretta e lo stallone senza "farvi entrare nè starci porci", e che per qualunque danno arrecato sono obbligati "a proprie spese a rifarlo" (ex novo), cioè a sostituire la cosa danneggiata.
  4. Altra clausola era che l'orto murato davanti ai mulini (esclusi altri due che rimangono nella disponibilità del proprietario) "si possa dai detti conduttori coltivare...ma che metà del raccolto vada spartito col Vita che in ogni tempo si può ripigliare l'orto".
Il più importante divieto che troviamo nei contratti di fitto, come anche in quello citato, è il divieto di "associazione" con nuovi soci e con i conduttori di altri mulini. Questa però pare sia stata una pratica comune, che costò anche la risoluzione del contratto di fitto per alcuni.

I mulini a Capaccio erano numerosi, testimonianza anche dell'importante attività cerealicola nella zona, di cui sette a Capo di Fiume. Ciò significava anche una dura concorrenza nell'attività molitoria fra i vari "impresari". Da qui la necesità per alcuni di associarsi, dividendo e compensando così il rischio, spese e profitti, come anche il tentativo di altri di realizzare un vero e proprio monopolio per controllare quello che doveva essere uno degli affari dell'epoca.
Questi "patti di associazione" venivano anche sanciti con veri e propri atti notarili, nei quali le parti s'impegnavano anche ad "accaparrarsi" quel tale mulino, così come si "obbligavano d'assistere personalmente in dette moline come da dovere e non mancare qualsiasi causa o pretesto".
Da un atto notarile del 1747 risulta che sei cittadini capaccesi erano riusciti eccezionalmente a fittare tutti e sette i mulini di Capo di fiume. 



La ruota del Mulino d'Alessio oggi "Le Trabe"
L'attività molitoria era tipica di quell'eterogeneo ceto che cercava di emergere tra gli spazi lasciati liberi o concessi da quello dominante.
Capaccio come tutti i centri del Regno di Napoli dell'epoca era dominata economicamente e socialmente da un ristretto numero d'individui ed istituzioni: il feudatario, il clero e quella borghesia che viveva more nobilium, tutti accumunati da un'identica conduzione dei loro beni quella della rendita. 

La piccola proprietà esisteva, ma se era unica fonte di reddito, era sempre a rischio nei periodi di recessione o di carestia, guerra o malattie endemiche, di essere fagocitata dai grandi proprietari dell'epoca.

Per chi voleva elevare il proprio stato economico e sociale non rimaneva che darsi alle attività imprenditoriali all'ombra del feudatario e degli altri potentati come a danno del Comune, cosa che li accumunava anche al feudatario che fu protagonista di storiche usurpazioni proprio a danno della comunità capaccese.

Così a lungo andare nel '700 a Capaccio si formò una categoria di benestanti, che diversamente da quanto avveniva nel vicino Cilento, si distingueva oltre che per la media proprietà, soprattutto per la maggior parte dei casi, per il possesso di capitali commerciali, di masserie di animali proprie o in fitto, per il commercio di grano e per i fitti, sub affitti di terre, mulini, di diritti feudali o di pascolo. Tra quest'ultimi sono da ricordarsi i diritti di "fida", che vennero anch'essi monopolizzazti da questo ceto emergente (9), come lo furono anche i fitti dei beni del Conte di Capaccio, degli altri nobili presenti con loro proprietà nella Piana di Capaccio e degli enti ecclesiastici (Mensa Vescovile, Parrocchie, ecc.).

E' da questa borghesia di fittavoli e di massari, che si svilupperà all'ombra della feudalità, che sorgerà, poi, quel ceto di proprietari terrieri che soppianterà la vecchia nobiltà assumendone le funzioni economiche e sociali nel XIX secolo.

Non sorprende quindi la scelta di metodi aggressivi anche nella conduzione dei mulini come ad esempio i patti di associazione. Erano gli strumenti con cui si cercava da parte di questi emergenti di stabilizzare il proprio ruolo e massimizzare i profitti. Ma è anche vero che tali accorgimenti si scontravano con la volontà dei maggiorenti e quindi dei proprietari dei mulini, di non vedere i loro beni deprezzati o strumento dell'arricchimento altrui, volendo mantenere la loro posizione dominate.

Così non era difficile che si cercasse da parte di costoro di alimentare una rotazione nel fitto dei loro beni per non fare che questi fossero sempre nelle mani di alcuni e per non rafforzarne le posizioni.
D'altra parte i patti di associazione potevano essere realmente nocivi, in quanto i conduttori potevano dirottare, per comodità o necessità, partite di grano da macinarsi altrove a danno dell'attività del mulino che in precedenza ne aveva sempre beneficiato.

Così assistiamo dalla lettura degli atti notarili dell'epoca a diversi cambi di mano nella conduzione dei mulini. Ad esempio i due mulini della famiglia Vita fittati dal settembre 1745 all'agosto 1748 a G. Suozzo e D. A. Spinillo per 300 tomoli di grano l'anno, passano nell'agosto del 1746 al settembre del 1747 nelle mani di E. Lucifero e G. di Ceia per solo 150 tomoli e 1/2 di grano l'anno, dopo la risoluzione del contratto di fitto con i precedenti conduttori perchè rei di patti d'associazione. Ma i subentranti nella conduzione dei mulini non vengono riconfermati per il triennio successivo, vedendosi sostituti nel fitto per 300 tomoli di grano l'anno da G. Marino, G. Franco e M. Niglio.

Interessante poi come i contratti di fitto ci permettano di scoprire anche il declino economico di alcune zone del nostro territorio. 
Particolare il caso dei 4 mulini del Conte di Capaccio a Varco del Carro, confinante con l'odierna Spinazzo, che per il triennio 1743-1746 furono fittati per 300 tomoli di grano l'anno. Il prezzo di fitto di quei mulini nel triennio 1761-1754 scese a 160 tomoli. Nel 1778 il fittavolo del Conte di Capaccio, il Forlano, li sub-affitta dal 1778 al 1784 (cioè per sei anni) ai fratelli N. e P. Barlotti per 50 tomoli di grano l'anno, più 30 carlini per la vigna lì vicina (10).

Abbiamo visto che il fitto dei mulini, ma in realtà anche di altri beni, avvenivano in "genere". Ma difficilmente i grandi proprietari, il feudatario, gli enti ecclesiastici e le grandi famiglie borghesi, sino all'eversione della feudalità, si interessavano della loro commercializzazione nei grandi mercati del tempo.

In realtà ciò avveniva attraverso intermediari, che acquistavano il grano in loco, cioè col solito metodo dell' "Asta con accensione delle candele", che anche in questo caso avveniva nella pubblica piazza di Capaccio Paese.

Marina di Paestum di Alessandro La Volpe

Il grano, quindi, acquistato dagli agenti locali ma anche da mercanti di altre località , veniva, poi trasportato sulla costa di Capaccio, nel luogo di caricamento, detto "di Brianza" in località Torre di Pesto. Da qui il grano procedeva verso Salerno e gli altri luoghi di "approdo" del grano capaccese, che come per quello cilentano e del Vallo di Diano, erano la Costiera Amalfitana, Eboli ed il Golfo di Napoli.

La millenaria storia dei nostri mulini termina all'inizio del secolo scorso con la trasformazione in centrali elettriche di alcuni di essi, che sono anche gli unici di cui ancora noi moderni abbiamo testimonianza, e cioè i primi ad essere trasformati in centrali, cioè le Muline di Mare, che erano di proprietà della famiglia Maida e quelli di Capo di Fiume, che erano di proprietà della famiglia d'Alessio, cioè l'attuale ristorante "Le Trabe". Questa fu la più importante centrale elettrica capaccese che insieme all'altra nel 1927 producevano energia di poco inferiore ai 100 HP (11). 

Note:
(1) A.S.S., Catasto Provvisorio. Il "Quadro Riassuntivo" ne indica 8, ma da un riscontro delle diverse partite pare che essi in realtà fossero ben 11: due e non uno quelli di Vittoria Vita (n. partita 531) e per i mulini del feudatario di Capaccio (n. p. 185) due a Vado (=Varco) del Carro e le due Muline di Mare.
(2) Il Sica e l'Abazia di S. Benedetto di Salerno da un riscontro sul Catasto Onciario appaiono proprietari di mulini, siti a Capo di Fiume, ma non compaiono nè negli atti notarili succesivi nè sul successivo Catasto Provvisorio, deducendosi da ciò che se ne erano liberati precedentemente.
(3) Nel 1705 Pirro Pinaideis de Guinara morì senza eredi e i suoi feudi (Giungano e le signorie di Spinazzo e Convincenti) furono devoluti al Fisco (V. Rubini, La coppola di don ciccillo ed altre storielle pestane di V. Rubini, Ed. Delta 3, 1996,p.75). In seguito appare come proprietario della "Difesa di Spinazzo" e dei suoi mulini Garofalo Juniore, duca della terra di Giugano.
(4) I "processetti" per le mutazioni delle quote erano una procedura prevista dall'art. 9 della legge del 9 ottobre 1809, che prevedeva che il Sindaco e tre Decurioni potessero correggere o aggiornare il Catasto, "caricando" o "scaricando" alle diverse partite (ditte) i beni acquistati o venduti.
(5) Particolareggiata, invece, la descrizione dei mulini fatti nell'atto notarile di fitto dei 2 mulini di proprietà di Giuseppe Vita a Giovanni Sozzo e Domenico Antonio Spinello nell'agosto del 1745. I mulini siti in Capo di Fiume sono "dentro due stanze di casa coverta di imbrici, oltre ad un'altra casa sottana con torretta nuova di sopra, un'altra stanza per cucina e stallone nuovo per abitazione colli soliti acquari del detto fiume, ruote di legno, moli di pietra ed altri strumenti di ferro necessari a detti mulini, con orti attigui".
(6) Palazzo Forlano è uno delle più belle e grandi case palazziate di Monticello, sul capoluogo, trasformato dopo il terremoto dell'ottanta in un'attività di ricezione turistica e di ristorazione.
(7)  Così la Mensa Vescovile per il periodo 1749-52 fittava i propri mulini per tomoli 75 e ducati 35. 
(8) Cautela questa molto importante se nel 1859 il Barone De Marco, subentrato probabilmente alla famiglia Vita nella proprietà di detti mulini, avvierà una causa contro i sig.ri E. Bellelli e G. d'Alessio (anch'essi proprietari di mulini) colpevoli, a suo dire, di aver, con dei lavori su un argine di uno dei canali di Capo di Fiume, diminuito il volume d'acqua utile per movimentare i macchinari dei suoi mulini. In secondo grado una perizia accertò che l'inconveniente deriva dalla mancata pulizia del tratto di canale che portava l'acqua ai mulini del De Marco.
(9) La "fida" era il canone che si pagava in compenso della concessione di far pascolare un animale in un terreno, che era gravato dall'onere di consentirlo ai cittadini di un determinata località. 
(10) I mulini di Varco del Carro (che probabilmente sfruttavano le acque del Solofrone) erano dipendenze della "Difesa di Spinazzo", località di Capaccio confinante con Giungano (signoria del cui feudo era anticamente parte), Cicerale, Ogliastro C.to ed Agropoli. Varco del Carro era quindi anche località di macinatura del grano per le zone vicine oltre che di transito per il Cilento. Era una delle poche zone della Piana ampiamente coltivata. Le cose, però, cominciarono a cambiare già nel 1656 con la scomparsa del casale di Convincenti a seguito della peste che sterminò i suoi abitanti.
(11) Come risulta da un ricorso della società elettrica del d'Alessio, la Società Salernitana di Elettricità, con sede a Salerno, al Consiglio Provinciale di Salerno, datato 20/21/1928, contro il carico fiscale a cui questa era stata sottoposta.  

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