martedì 9 gennaio 2018

IL MEDIOEVO A CAPACCIO

Vincenzo Rubini (1898 - 1990)

Conobbi Vincenzo Rubini assai tardi, in quelli che furono gli ultimi anni della sua vita. Cosa di cui mi dolgo, non avendo così potuto godere più a lungo della sua amicizia e dei suoi insegnamenti.
Per me è stato un esempio ed un maestro.
Conoscerlo una rivelazione.
E' stata la sua frequentazioni ad appassionarmi alla storia locale e ad iniziarmi al suo studio.
Un gentiluomo d'altri tempi, colto, ironico, cortese, intelligentissimo con un particolare sense of humor.
Appassionato di storia, arte e letteratura, viaggiò per lavoro, era funzionario dello Stato, in molte città italiane, tra cui Firenze, che considerava la sua seconda patria dopo Capaccio, di cui frequentò i circoli culturali del tempo. Fu intimo amico di Giorgio La Pira.
Personalmente lo considero il più importante cultore della nostra storia locale del secolo scorso.
E' stato un pioniere perché ebbe modo di uscire da quelli che erano i modi e gli schemi di studio dell'erudizione del suo tempo, facendo piazza pulita di molti stereotipi allora diffusi anche tra i maggiori studiosi professionisti: l'abbandono della Piana di Pesto sino al XVIII secolo a seguito del sacco saraceno e  il suo conseguente spopolamento ed impaludamento generalizzato, la distruzione della città di Caputaquis ad opera di Federico II, la discendenza diretta del culto della Madonna del Granato da quello di Hera Argiva ed altro ancora.
Il suo era un metodo storico rigoroso, fondato sulla ricerca e sullo studio dei documenti d'epoca.
Era conosciutissimo e rispettato con riverenza dagli studiosi che frequentavano la Badia di Cava e gli Archivi di Stato di Napoli e Salerno, presso cui non poche furono le scoperte di documenti inediti a lui attribuibili, ma soprattutto di rilettura dei testi correggendo anche noti ed affermati storici, come l'Ebner, tanto che questo stesso nella lettura di alcuni testi del Codex Diplomaticus Cavensis riconobbe l'errore pur senza citare il Rubini.
Sempre al Rubini si deve il recupero di numerose pergamene e documenti medioevali e di età succesiva presso privati e la Parrocchia di Capaccio Capoluogo, che avrebbero corso il rischio di essere danneggiati e perduti per sempre. Li raccolse e ne affidò la conservazione all'Archivio della Badia di Cava presso cui fu istituito un apposito fondo archivistico. Scelta giusta, perché su quei documenti, spesso citati nella letteratura storica anche internazionale, numerosi sono stati gli studi da cui hanno attinto.
Ma il suo orgoglio era la notevole raccolta di testi antichi su Capaccio, che realizzò nel corso di una vita con certosina pazienza e non senza dispendio di energie e di una piccola fortuna. Oggi è conservata presso la Biblioteca dell'Università di Salerno, che è aperta alla consultazione di studenti e ricercatori.
Le sue ricerche furono raccolte in numerosi scritti, di cui però pubblicò, purtroppo, pochissimo.
Fondamentale è la raccolta degli "Antichi canti capaccesi" del 1983, pubblicata col contributo della allora Cassa Rurale ed Artigiana di Capaccio, che sottrasse alla precarietà della memoria dei nostri anziani quello che è un vero e proprio patrimonio storico e culturale che rischiava di andare smarrito per sempre.
Importante anche la sua "Capaccio 1246", pubblicata dall'Università degli Studi Federico II di Napoli e che, come molti avranno intuito, tratta delle vicende dell'assedio federiciano al castrum di Caputaquis.
Altre pubblicazioni postume le si devono al Prof. Mario Mello e al nipote Domenico Tanza.
Tra queste ricordo "Ritorno a Capaccio. Documenti e memorie. Un itinerario fra le terre della Piana e le vie del centro collinare" e "La coppola di don Ciccillo ed altre storielle pestane", nei quali emerge non solo lo storico ma anche un grande narratore dalle capacità letterarie purtroppo inespresse.
Il frutto delle sue ricerche, come numerosi suoi scritti, sono conservati presso quella che fu la sua dimora, il palazzo avito, quello dei Baroni De Marco, che Vincenzo Rubini volle costituissero un fondo a disposizione di studenti e ricercatori sotto la gestione di una fondazione ad hoc costituita, che mi pare oggi presieduta dal nipote omonimo, l'avv. Vincenzo Rubini.
Ripropongo in questo post una straordinaria ricostruzione storica di Rubini sul medioevo capaccese, che pubblicai a fine anni novanta sul giornale che dirigevo dell'allora giovanile della D.C. di Capaccio.


Il castrum di Caputaquis e la rappresentazione della cinta muraria di Capaccio Vecchio da una platea dell'Abbazia di Cava del seicento.


IL MEDIOEVO A CAPACCIO
di Vincenzo Rubini


Alcuni storici della seconda metà del XVI secolo, gli anni in cui ebbe l'ultima fiammata lo spirito delle crociate, accreditarono la tradizione secondo cui Paestum sarebbe stata distrutta dai saraceni, che avrebbero devastato il paese che la circonda in maniera tale che soltanto dopo alcuni secoli  potette faticosamente ritornare alla vita.
In effetti il territorio intorno a Paestum ebbe un periodo di grave crisi che coincise con gli ultimi anni della guerra gotica, e da essa venne fuori per opera dei Benedettini e per effetto dell'insediamento longobardo a Capaccio-Vecchio.

All'alba del secondo millennio, all'indomani cioè di quello che sarebbe stato il guasto saraceno, la pianura pestana si presentava divisa in due zone da una linea che andava da oriente ad occidente passando pressapoco su quella costituita dal Rettifilo ed il suo prolungamento, la Via Elice - Codiglione (1).
Quasi a metà di questa linea, giaceva un grande stagno che occupava l'area sulla quale oggi sorge Capaccio Scalo, che alla metà del seicento segnava i confini dei terreni di Vannulo "verso Salerno" e che in poco più di un secolo si prosciugò completamente, così alla metà del settecento, quando si rilevarono le prime carte del nostro territorio, non esisteva più.

La parte settentrionale, quella che era compresa tra questa linea ed il Sele, era feudale, incolta e disabitata, vi è segnalata soltanto una "curtis", vi incontriamo l'unico toponimo medioevale della zona: il "Feu" mentre un centro di vita era ancora la foce del Sele, dove era stato il porto di Paestum, segnato nelle più antiche carte di navigazione ed ancora frequentato.

La parte meridionale invece, che andava fino al Solofrone ed oltre, era intensamente coltivata e, relativamente ai tempi, densamente popolata.
Su questa zona Paestum non esercitava più nessuna influenza.
In tempi in cui la difesa era il primo problema che una comunità doveva risolvere, una città che non poteva esserlo, e Paestum non lo poteva per la lunghezza e lo stato delle mura, l'abitarvi diventava più pericoloso che in ogni altro luogo.

Intanto i Benedettini, già presenti nella zona, si andavano raccogliendo in comunità, di cui la prima a nostra conoscenza si era stabilita a "Macchiadulmo" in un piccolo monastero dedicato a S. Arcangelo, e poi a Capodifiume, dove i monaci di Sant'Arcangelo confluirono in una comunità più importante, che divenne Abbazia e si intitolò a San Nicola e di cui non esiste altro ricordo che il toponimo conservato nella località dove sorgeva.

La parte più meridionale della zona, corrispondente grosso modo, a Spinazzo era proprietà del monastero benedettino di Santa Maria de Domno in Salerno da cui proviene il documento che ci consente di stabilire l'alto livello economico raggiunto dal nostro territorio, redatto per la concessione delle "Muline di Mare", che entrarono in esercizio nel maggio 1042.
Il mulino, che era fornito di due mole e doveva essere attrezzato in modo da poter lavorare giorno e notte, restò attivo fino a che non fu trasformato in centrale elettrica alla fine della prima guerra mondiale.
Non soltanto esso è l'indice sicuro di una eccellente situazione economica, ma l'imponenza dei lavori di canalizzazione e la fabbricazione dei meccanismi lo sono pure di un livello culturale non frequente in un'Europa che cominciava appena a muovere i primi passi verso la rinascenza.

La presenza benedettina, che è avvertibile nella distribuzione della proprietà terriera, che durerà in alcune zone, fino alla metà del settecento, è largamente documentata perché l'archivio della Badia di Cava, che alla fine del XII secolo assorbì anche l'Abbazia di San Nicola di Capodifiume, ci fornisce atti che illuminano in maniera particolare le condizioni economiche e sociali della zona e ce ne danno una conoscenza altrettanto vera quanto sorprendente per coloro che ancora pensano il medioevo sugli schemi tracciati dall'illuminismo.

La proprietà terriera, allora l'unica fonte di vita, era divisa in piccole proprietà lavorative ed i monaci assistevano i contadini in tutte le tecniche dell'agricoltura, in cui furono grandi maestri, e collocavano il rapporto tra l'Abazia concedente il terreno ed il contadino concessionario, su un pino di uguaglianza giuridica che non soltanto non ne limitava la libertà, ma gli riconosceva esplicitamente il diritto di lasciare il terreno e riottenerlo quando volesse tornarvi, entro un tempo prestabilito.

L'effetto di questo regime, in cui è evidente la tutela della dignità degli interessi del lavoratore e la comprensione civile e la competenza tecnica di chi lo assisteva, è un grande progresso economico, che è documentato non soltanto dall'impianto delle "Muline di Mare", ma dallo sviluppo di Capaccio Vecchio che, appunto in quegli anni, allargò la cerchia delle sue mura, ne costruì il formidabile caposaldo e innalzò alla Madonna la grande chiesa che sfiderà i secoli e le ire degli uomini.

Tutto questo ci raccontano nel loro secco e semplice linguaggio i documenti che consacrano concessioni, vendite, affitti, donazioni, tutti piccoli atti nel quale ogni tanto si accende un raggio di luce che illumina un tempo, che altrimenti resterebbe oscuro.

Così il 3 novembre 1094 Giovanni e Gemma, coniugi contadini, nel contesto dei patti con i quali accettavano dall'Abate di San Nicola un terreno in concessione, affermano che:
"permanent quemadmodum liberi omines secundum consuetudinem istius terre Capudaquensis".
La libertà, secondo la la consuetudine, che questi due poveri contadini, che mi piace immaginare giovani, nel momento in cui formano una nuova famiglia, rivendicano con pacata fermezza, era dunque costume di questa terra di Capaccio.

Abbiamo il diritto di essere fieri di questo nostro vecchio mondo, ma questa fierezza ci obbliga a raccogliere l'eredità che è un programma di vita e di lavoro, nella fede e nella libertà, riaffermato quando Salerno era già normanna ed il feudalesimo si apparecchiava a varcare il Sele.


La Chiesa dell'Annunziata di Paestum durante i lavori di restauro del 1968 che misero in luce l'impianto romanico, cioè medioevale, della chiesa. 



Note
(1) L'attuale Viale della Repubblica