lunedì 1 novembre 2021

L'AMORE NEOPLATONICO TRA ARTE E FILOSOFIA DEL RINASCIMENTO


La nascita di Venere (1485) di Sandro Botticelli 




Eros o Amore, come intermediario tra l'umano ed il divino, ha nel pensiero platonico una valenza di portata fondamentale nel percorso del "filosofo" che vuole trascendere la propria condizione umana.

Tema che ritorna nel platonismo rinascimentale, ma già presente nel platonismo medievale dei "Fedeli D'Amore", e che si manifesta compiutamente in tante opere d'arte come la Venere del Botticelli.

Lara Pavanetto, storica, ricercatrice e scrittrice, in un suo articolo che riprendiamo integralmente, e che ringrazio per avermi permesso di pubblicarlo in questo blog, affronta il non semplice compito di discostarsi da certe narrazioni ufficiali per chiarire la valenza esoterica e magica dei circoli neoplatonici fiorentini, che non poco influenzarono  la produzione artistica cittadina.

(Enzo Di Sirio)


L’intero pantheon greco nel sistema di Pico e Ficino, ruotava attorno a Venere e Amor.

 Secondo Platone, infatti (considerato dai filosofi rinascimentali quasi come Dio Padre e Plotino come Gesù), la comunione tra i mortali e gli dèi si stabiliva attraverso la mediazione dell’Amore.

 Secondo Ficino, l’amore era il nodo perpetuo e la congiunzione dell’universo, e tutte le parti erano saldate l’una all’altra mediante una carità reciproca, perché come aveva scritto sant’Agostino: "Tria in Charitate, velut vestigium Trinitatis".

Venere era dispensatrice di doni particolari, definiva il sistema universale degli scambi mediante i quali i doni divini erano messi in circolazione.

L’immagine delle tre Grazie, che si presenta così spesso nel Rinascimento, appariva una figura appropriata a illustrare il ritmo dialettico dell’universo. Le Grazie erano considerate la triade esemplare, l’archetipo sul quale erano modellate tutte le altre triadi della dottrina neoplatonica: la triade logica species-numerus-modus, la triade teologica Mercurio-Apollo-Venere, la triade morale Veritas-Concordia-Pulchritudo.

E tutte le triadi erano governate dalla legge della emanatio, raptio e remeatio. Una singola triade poteva così servire come cifra dell’universo, perché traccia della trinità divina. La dottrina delle ‘vestigia della Trinità’ era una delle misteriose rivelazioni che pagani e cristiani condividevano. 

Ficino ritrovò lo stesso pensiero fra i pitagorici e i platonici: la trinità, infatti, era considerata dai filosofi pitagorici la misura di tutte le cose. Ficino scrisse nel De Amore che Dio governa le cose mediante il tre, e che le cose stesse sono determinate mediante il tre. 

Il supremo fattore prima crea le cose, poi le trae a sé, e in terzo luogo le rende perfette: crea, rapit, perficio. Da qui la triade che spiega le tre fasi del circolo dell’amore divino: Pulcritudo-Amor-Voluptas.  

Amore è desiderio suscitato dalla bellezza. 

Il desiderio senza la bellezza non sarebbe amore, ma passione animale. La bellezza da sola, senza passione, sarebbe entità astratta che non suscita amore. Solo il rapimento vivificante di Amor può unire i due contrari di Pulchritudo e Voluptas. Ma per conseguire la perfetta unione dei contrari, l’Amore deve rivolgersi verso l’Aldilà, perché se rimane accanto al mondo finito, la passione e la bellezza continueranno a essere in contrasto.

 

Nicola Cusano (Kues, 1401 – Todi, 11 agosto 1464), cardinale, teologo, filosofo, umanista, giurista, matematico e astronomo tedesco, spiegherà che: un circolo e una linea retta sono incompatibili fin tanto che rimangono finiti, ma coincidono se infiniti. 

Solo diventando Grazie trascendenti, uniti dal rapimento di Amore, Bellezza e Piacere potranno coincidere. 

Esiste dunque la necessità di un termine medio che crei equilibrio, Amor, che guardi all’Aldilà come al vero fine dell’estasi amorosa. Solo così l’uomo può raggiungere l’equilibrio nel tempo presente. L’equilibrio è fondato sull’estasi amorosa, l’estasi è la gioia divina, l’Aldilà. Ma, paradossalmente, per ‘vedere’ cioè conoscere l’estasi divina bisogna essere ciechi. Amor deve essere senza occhi perché deve essere al di sopra dello stesso intelletto che è una limitazione, come diceva Orfeo.

A questo punto la tradizione che vedeva nel cieco Cupido un simbolo di passione animale priva di luce, inferiore all’intelletto, fu del tutto ribaltata. Le dottrine neo-orfiche rinascimentali celebrarono la supremazia dell’amore cieco. 

 

L’Amore cieco

Per Marsilio, Pico della Mirandola, Giordano Bruno, ma anche Lorenzo de’ Medici, la forma suprema dell’amore neoplatonico era la cecità. 

Giordano Bruno, in particolare, negli Eroici furori, distinse ben nove modi di cecità amorosa. La cecità sacra, secondo Bruno, è la più alta forma d’amore. E’ la presenza della divinità che acceca, con la sua luce. Ne consegue che si ‘vede’, cioè si conosce di più con gli occhi chiusi, che aperti.

Giordano Bruno si collega alla teologia negativa di Pitagora e Dioniso, tralasciando come falsa quella dimostrativa di Aristotele e degli scolastici medievali: i misteri più alti trascendono la comprensione, per cui devono essere appresi in uno stato di oscurità in cui svaniscono le distinzioni della logica. 

Si poteva parlare a ragione di una ‘dotta ignoranza’. 

L' 'Uno’, il Dio nascosto, poteva essere descritto soltanto in negativo, cioè negandone gli aspetti che lo avrebbero reso finito. Ma l’Amore cieco, il cieco cupido, prese a questo punto una piega orfica inaspettata perché il cieco Eros era anche conosciuto come un dio volubile, un demone che annebbiava l’intelligenza eccitando gli appetiti animali dell’uomo. La voluttà, infatti, era considerata un piacere cieco, ingannevole, corruttore ed effimero.

Come poteva questo dio diventare una forza addirittura superiore alla ragione? 

Marsilio Ficino scriveva che l’unica cosa negativa dei piaceri dei sensi, è che sono effimeri, e per renderli eterni serve proprio l’intelletto. Tuttavia l’intelletto chiarificando restringe e pone dei limiti. Solo l’Amore poteva espandere la comprensione intellettuale eliminando i limiti. Per questo Pico celebrava soprattutto la cecità dell’amore supremo: 

"Entriamo nella luce dell’ignoranza e, accecati dall’oscurità del divino splendore, esclamiamo col profeta: venni meno nei tuoi cortili, o Signore".

San Paolo nella lettera agli Efesini (19) dice:

 "Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente".

Nel De occulta philosophia, Agrippa di Nittesheim riporta alla lettera le parole di Pico:

"Perché Amor è cieco. Ideoque amorem Orpheus sine oculis describit, quia est supra intellectum".

 Di conseguenza Orfeo descrive l’Amore senza occhi, poichè è oltre l’intelletto.

Spiegando la creazione del mondo, Platone aveva scritto che un corpo che comprendesse in sé tutte le cose non avrebbe bisogno di occhi per vedere né di orecchi per udire, perché tutte le cose sarebbero già dentro di lui, e nessuna fuori di lui. 

Per questo i più alti misteri si devono vedere senza occhi e udire senza orecchi. A ciò si era riferito Orfeo quando aveva detto che Amore è senza occhi. I misteri allora si riceveranno non mediante i sensi ma con la pura anima. 

In ‘Sogno di una notte di mezza estate’ Shakespeare scrive: 

"Amore non guarda con gli occhi, ma con la mente. E per questo l’alato Cupido è raffigurato cieco".

Sull’Amore cieco le teorie di Ficino e Pico si divideranno. Pur ritenendo entrambi che la più alta forma d’amore è cieca, per Ficino la cecità derivava dalla gioia, mentre per Pico la cecità implicava una dottrina di auto annientamento mistico. Per Pico, l’uomo per accedere all’assoluto, deve abbandonarsi completamente a uno stato di non-conoscenza e avvicinarsi al segreto divino nella cecità dell’autodistruzione. Questa era per Pico una suprema forma d’amore che in questo si distingueva dall’amicizia, perché non è ricambiata. Sarebbe infatti assurdo supporre che l’amore di un mortale per Dio, sia dello stesso genere dell’amore che Dio accorda a un mortale. Estendere la reciprocità a Dio è impossibile, per Pico. Per cui l’amore divino, incredibilmente e paradossalmente, diventa la suprema espressione della discordia. Si può conseguire una ‘felicità naturale’ scoprendo in se stessi l’orma di Dio, ma la ‘felicità suprema’ solo perdendosi in Dio. 


La dottrina dei contrari

Nel Sofista di Platone la dottrina dei contrari che si uniscono nella concordia, è così espressa: 

"L’essere è uno e molti, ed è tenuto insieme dall’inimicizia e dall’amicizia".

Plotino invece scrive: 

"Come vengono prodotti gli incantesimi? Mediante la concordia naturale dei principi simili e la contrarietà dei dissimili. La vera magia è l’Amore contenuto nell’Universo, e l’Odio ugualmente. In tutto l’universo c’è una sola generale armonia, benché formata di contrari".

Pico definì la bellezza un principio ‘composto’ e intrinsecamente ‘contrario’. Segue che in Dio non c’è bellezza perché la bellezza include anche il suo contrario, l’imperfezione. Così il principio dell’intero nella parte, implica che Venere si congiunga a Marte dio della guerra, e che la natura di Marte sia una parte essenziale di quella di Venere e viceversa. Per cui la ferocia può essere considerata amabile, e la vera amabilità è feroce. 

Nell’amante perfetto amabilità e ferocia coincidono. 

Il Dio della vendetta è anche il Dio dell’amore. La sua giustizia è misericordia, la sua ira pietà, la sua stessa punizione è una benedizione perché purifica dal peccato. L’identità divina della collera e dell’amore, era il segreto della Bibbia. Aggiungo io, era la spiegazione dell’esistenza del Male. La coincidenza degli opposti nell’Uno supremo infiammò l’immaginazione artistica del rinascimento. Il motto che spiegava Erasmo nei suoi Adagia, festina lente, cioè affrettati lentamente, un evidente ossimoro, diventò la massima universalmente preferita nel Rinascimento. Una massima espressa in molte immagini: un delfino attorno a un’àncora, una tartaruga che porta sul guscio una vela, una vela attaccata a una colonna, una farfalla posata su un granchio, un falco che tiene nel becco i pesi di un orologio, una remora che si attorciglia attorno a una freccia, un’aquila e un agnello, una lince bendata. 

La stessa Bibbia diceva che bisognava essere astuti come il serpente e miti come una colomba: un solo rapido atto di crudeltà compiuto al tempo giusto, poteva risparmiare inutili crudeltà. Sembra di sentir parlare Machiavelli. Per questo l’unione finale non poteva che essere quella tra due apparenti contraddizioni, Amore e Morte: la teoria eraclitea che gli opposti coincidono. Il cammino verso il basso e quello verso l’alto portano alla fine allo stesso punto. Festina lente era anche il segreto della Natura, come lo fu per il Rinascimento l’invenzione della palla di cannone, che divenne simbolo di potenza nascosta liberata al momento opportuno (festina lente). 

Nella sua Apologia Pico attribuiva alla magia naturale una forza simile alla palla di cannone: 

"Non esiste forza latente in cielo o in terra che il mago non possa liberare mediante appropriate sollecitazioni".

 E’ l’uomo il legame vitale tra le arti della magia e le opere della natura. L’uomo riconosce in se stesso le forze della natura, e nella natura il modello delle forze che sono dentro di lui. Inserendo la sua arte magica nella natura, egli può liberare forze più grandi delle proprie.

Leonardo da Vinci esplorò in questo modo i segreti della natura, desiderando liberare e imbrigliarne le forze nascoste. Il suo metodo disordinato, il suo apparente caos sconcertante per gli scienziati moderni, deriva proprio dal pensiero di Pico, da quella ricerca di affinità tra cose diverse che hanno le caratteristiche di un potere magico. Pico definiva l’arte del mago un ‘matrimonio tra cielo e terra’: l’unione dei contrari.

 

Lo smembramento come supremo sacrificio

Ma, una volta che l’Uno supremo discende nei Molti, questo atto di creazione, secondo la dialettica neoplatonica, diviene un’agonia sacrificale perché l’Uno viene fatto a pezzi e disperso. Per cui la creazione è una morte cosmogonica, mediante la quale la potenza concentrata della divinità è offerta e sparsa. La discesa e la diffusione della potenza divina saranno seguite dalla sua resurrezione, quando i Molti saranno ricomposti nell’Uno. 

Lo ‘smembramento’ diventa atto creativo. I filosofi neoplatonici lo chiameranno Dioniso, Zagreo, Nictelio, Isodaite, e creeranno miti allegorici in cui le trasformazioni sono presentate come morte e distruzione seguite dal ritorno alla vita e dalla rinascita. Perciò, le ‘Cose Ultime’ della mistica, essendo estreme, potranno essere raffigurate solo come catastrofi. Pico descriverà ‘la violenzia dello amor celeste’. Una violenza che sarà espressa in immagini raffiguranti un’ardente passione molto umana. Una passione che, molto umanamente, ha per oggetto la Donna. E alla fine, l’Amore Divino finì per incoraggiare il culto spirituale dei sensi. Ma l’Amore divino è dunque violento e distruttivo?

Consideriamo il dipinto di Tiziano ‘L’amor sacro e l’amor profano':


L'amore sacro e l'amor profano (1515) di Tiziano.


Che tipo di fontana è quella dove le due donne del dipinto si incontrano? 

È una fontana d’amore perché lo indica la presenza di Amor che si china sull’acqua e ci gioca. Ma spostiamo la nostra attenzione sui rilievi che decorano la fontana, sono minacciosi e violenti: un uomo viene frustrato, una donna trascinata per i capelli, un cavallo senza briglie è condotto via per la criniera. Il cavallo è simbolo platonico della passione sensuale, della libido, quell’amore che Pico definiva ‘bestiale’. 

Queste scene crudeli e violente mostrano che la passione animale può essere imbrigliata, ma deve essere punita. 

La violenza è una fase dei misteri d’amore, e queste scene violente non erano inconsuete nei riti pagani di iniziazione. Il Rinascimento conosce benissimo queste raffigurazioni perché le vede nelle stanze romane appena scoperte, accessibili forse più allora che oggi. 

Sia Ficino che Pico dicevano di sapere che nei riti pagani di iniziazione all’amore, il primo stadio era costituito da una purificazione della passione sensuale: un rito doloroso attraverso il quale l’amante si preparava alla comunione col dio. 

Per questo, i simboli di ‘castigazione’ furono introdotti cosi frequentemente nei contesti amorosi dagli artisti rinascimentali. 

Veronese illustrerà le ‘torture dell’Amore’, intese come prova purificatrice. I misteri amorosi di Platone ammettono solo due forme di amore castigato: l’amore celeste e l’amore umano. 

Incredibilmente, l’amore umano è il più misurato dei due, perché sa di essere effimero e finito ovvero limitato, mentre l’amore celeste, privo di ogni ornamento e limitazione è più appassionato e ardente, e violento. 

L’Amore divino può anche dunque essere, un dio di morte.

Seguendo questa ‘teoria’ dell’Amore consideriamo ora un’opera e un mito che mi hanno sempre molto incuriosito: il cassone nuziale di Sandro Botticelli. Fu commissionato nel 1483 da Lorenzo il Magnifico, il quale voleva regalare questa serie di opere a Giannozzo Pucci e Lucrezia Bini per il loro matrimonio. E’ oggi conservato al Museo del Prado, a Madrid. Narra la storia di Nastagio degli Onesti, una strana storia per ornare un cassone nuziale.

 

Sandro Botticelli, 1483, cassone con le storie di Nastagio degli Onesti.


Nastagio degli Onesti era un uomo innamorato di una donna figlia di Paolo Traversari, però non era corrisposto. La donna cambierà idea dopo aver assistito a una punizione inflitta a un’altra donna, irriconoscente verso l’amante. 

Nel primo episodio Botticelli rappresenta il momento in cui Nastagio, dopo essere stato rifiutato dalla donna, abbandona la città e comincia a vagare per la foresta. Mentre cammina per la foresta, Nastagio vede una donna seminuda che sta scappando terrorizzata, mentre dei cani la inseguono per azzannarla e alle loro spalle c’è un cavaliere armato che insegue con furia la donna. Nastagio prova a difendere la donna, ma purtroppo non riesce ad avere la meglio sugli assalitori. In questo spezzone narrativo, Botticelli rappresenta Nastagio più volte nella stessa scena (inserisce il protagonista ben tre volte), prima mentre vaga e poi mentre si imbatte nella donna in fuga. A fare da contorno alla scena c’è una grande foresta, con alberi molto alti, mentre sullo sfondo si può notare un paesaggio marittimo, che dona al tutto una forte profondità. Al confronto del grande ambiente, i protagonisti sembrano quasi delle miniature, ma nel contempo sono eccezionalmente dettagliati.

La vicenda di Nastagio degli Onesti si rifà al mito di Atteone. Secondo il mito, nel corso di una battuta di caccia, Atteone provocò l'ira di Artemide quando la sorprese mentre faceva il bagno insieme alle sue compagne all'ombra della selva Gargafia. Il caldo estivo, infatti, le aveva convinte a riporre le vesti e a rinfrescarsi interrompendo la caccia. La dea, per impedire al cacciatore di proferir parola intorno a quello che aveva visto, trasformò il giovane in un cervo spruzzandogli dell'acqua sul viso. Atteone si accorse della sua trasformazione solo quando scappando giunse a una fonte, dove poté specchiarsi nell'acqua. Intanto il cacciatore fu raggiunto dalla muta dei suoi cinquanta cani, resi furiosi da Artemide, i quali, non riconoscendolo, sbranarono il loro vecchio padrone. I cani, una volta divorato Atteone, si misero alla ricerca del loro padrone per tutta la foresta, riempiendola di dolorosi lamenti. Più tardi giunsero nella caverna di Chirone che donò loro un'immagine del padrone per attenuare il loro dolore. 

Giordano Bruno scrive che: 

"Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Rarissimi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda".

Atteone rappresenta, dunque, il filosofo alla ricerca della Diana ignuda che altro non è che la Natura rivelata nella sua vera essenza. Atteone diventa così, anche per l' analogia con il pellicano che alimenta i figli con la propria carne prefigurando l' eucaristia, una nuova e inattesa Imago Christi. 

Boccaccio fu sempre attratto dal mito di Atteone. Nel poema giovanile La Caccia di Diana, rovesciò il mito raccontando di un cervo che per amore si trasforma in «uomo d' intelletto». Nella più tarda Ecloga XI paragonò il pius Actheon che si dà in pasto ai propri cani al Cristo eucaristico che si dà in pasto ai fedeli. 

La novella di Nastagio degli Onesti, è fra le più famose del Decameron (V.8). Il cuore narrativo è l' allucinata visione di un cavaliere che va a caccia di una giovane donna e la fa sbranare dai cani. La tradizione conosceva “cacce infernali” simili a questa, ma rispetto a quelle la novella del Boccaccio non solo trasportava la scena dalla più fonda notte all' ombra diurna di un bosco in riva al mare, ma aveva in più il particolare, orripilante e decisivo, dei cani di cui la donna diventa preda e pasto. 

Da questa novella il Botticelli aveva preso spunto per il suo cassone nuziale?

Boccaccio, ricordiamo, visse tra il 1313 e il 1375, nacque probabilmente a Firenze e fu autore del Decameron  e di altre opere in volgare e in latino. Non conobbe mai direttamente Dante, ma ne ammirò l'opera e scrisse su di lui un Trattatello in laude di Dante che è anche una biografia. Curò un'edizione manoscritta della Commedia, correggendone il testo e aggiungendo al titolo l'aggettivo Divina, che rimase nelle edizioni a stampa del Cinquecento. Verso la fine della sua vita iniziò una pubblica lettura dell'Inferno nella chiesa di Santo Stefano in Badia, interrotta al Canto XVII.

Boccaccio nei suoi vari racconti vuole portare conforto alle vittime delle pene d'Amore che imperversa soprattutto sulle donne. Dante e Boccaccio hanno una concezione molto differente riguardo al ruolo della donna nel ‘gioco’ dell’amore. 

La principale differenza è la concezione teorica e divina dell'amore di Dante, in antitesi con quella più carnale di Boccaccio. Dante riteneva che la donna fosse l'unico tramite tra l'uomo e Dio, la riteneva dunque il ‘nodo’ della triade potremmo dire, per questo doveva essere nell’Aldilà, morta. 

In quasi tutte le sue opere, la donna è presentata con un'aggettivazione divina, un angelo. Ad esempio, nel sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” possiamo notare, oltre all'aggettivazione divina di Beatrice (e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare), come ogni uomo rimane quasi pietrificato vedendola, e nessuno si azzarda ad avvicinarsi o a pensare di “toccarla”. 

Del tutto opposta è la visione di Boccaccio. 

Per lui la donna non è un angelo ma un essere umano. L'amore non è visto solo come qualcosa di teorico, ma diventa un sentimento umano e terreno che spesso coinvolge la carne altrettanto o più dello spirito, e accende le passioni più sensuali: può essere all'origine di grande felicità, ma anche di delusione, sofferenze, tradimenti, gelosia, odio e violenza. L’Amore può essere anche Discordia. 

Nell’Hypnerotomachia Poliphili  letteralmente "Combattimento amoroso di Polifilo in sogno", romanzo allegorico, stampato a Venezia da Aldo Manuzio nel dicembre 1499, e attribuito da alcuni al misterioso frate domenicano Francesco Colonna del convento domenicano di Treviso, da altri a Francesco Colonna nobile romano; l’argomento è un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, che ormai sappiamo essere metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell'Amore platonico.

Il viaggio iniziatico richiama alla mente un grande romanzo dell'antichità, le Metamorfosi di Apuleio. I continui richiami alle divinità dell'antica Roma fanno del romanzo un'opera dichiaratamente pagana, il che spiega perché fu stampata anonima. 

È un’opera che sicuramente ispirò Giorgione, e che si trovava nelle librerie di tutti gli umanisti del tempo. Ebbene, nel primo libro dell’Hypnerotomachia, si narra che Polifilo prende parte a una complessa cerimonia officiata da un’anziana sacerdotessa, una specie di Santa Messa che si conclude fra miracolose fioriture di rose nate dal sangue. 

Terminati i riti, Polifilo e l’amata Polia ritrovata, innamorati vanno ad esplorare le rovine di un antico santuario che ospita un cimitero colmo di lapidi di amanti morti. Attraversandolo, dopo aver contemplato un dipinto in cui si descrivono i regni dell’oltretomba e le punizioni inflitte a chi ha travalicato le leggi di amore, si giunge finalmente al mare, dove la nave di Cupido attende entrambi per imbarcarli verso Citera. Arrivati sull’isola, Polia e Polifilo partecipano al trionfo di Amore, che li conduce a un anfiteatro. Al suo centro si trova la fontana di Venere, in cui sta la Divina Madre occultata da una cortina. Cupido offre agli innamorati una freccia d’oro grazie a cui penetrare il velame; Polifilo esegue, e Venere appare. Segue un matrimonio mistico fra i due giovani, benedetto dalla divinità e sancito dalla ferita di entrambi, trafitti dalla medesima freccia. 

Che fiore sta sulla fontana dell’Amore nel quadro di Tiziano L’amor sacro e l’amor profano? 


Amore/morte

I riti pagani, gli uomini rinascimentali li conobbero attraverso sarcofagi romani. Un particolare che non si sottolinea mai abbastanza. Per cui conobbero miti che appartenevano a un contesto sepolcrale, e indagarono il loro significato segreto. Non li interpretarono come semplici favole, ma come allusioni ai misteri della morte dell’Adilà, e tutto in termini neoplatonici. 

Un artista rinascimentale, vedendo raffigurato su un sarcofago romano il tema di Leda e il Cigno, avrebbe cercato di capire perché mai un’avventura amorosa di Giove fosse stata scelta per decorare una tomba. Si sarebbe domandato perché gli amori degli dei antichi apparivano sui sarcofagi così spesso. 

Gli amori di Bacco per Arianna, di Marte per Rea, di Zeus per Ganimede, di Diana per Endimione. Tutte variazioni di uno stesso tema: l’amore di un dio per un mortale. Forse che morire significava essere amati da un dio, e partecipare per mezzo di lui alla beatitudine eterna? 

Un umanista rinascimentale scrive:

"Ci sono molti tipi di morte, ma il più apprezzato e lodato sia dai saggi dell’antichità sia dall’autorità della Bibbia è questo: quando coloro che bramano Dio e desiderano congiungersi con lui (che fare non si può in questa prigione della carne), sono rapiti in cielo e liberati dal corpo per mezzo di una morte che è il sonno più profondo. In questo modo san Paolo desiderava di morire quando disse: Bramo di dissolvermi e di essere con Cristo. Questo tipo di morte era chiamato bacio dai teologi simbolici, la mors osculi dei cabalisti".

Pico scrisse sulla ‘morte di bacio’ nel suo Commento. I misteri pagani d’amore culminavano in uno hieros gamos, un’unione estatica col dio che veniva sperimentata dal neofita come un’iniziazione alla morte. 

Come scrive Pico:

"Alceste perfettamente amò, che all’amato andare volse per morte, e morendo per amore fu per la grazia delli Dei a vista restituita".

Amore come morte era concetto accettato nella cerchia medicea, tanto che lo stesso Lorenzo de’ Medici spiegava commentando i suoi sonetti, che cantando l’amore aveva iniziato con un sonetto sulla morte:

"Perché chi vive ad amore, muore prima all’altre cose. E se lo amore ha in sé quella perfezione che già abbiamo detto, è impossibile venire a tale perfezione se prima non si muore".

 La teoria platonica dell’amore diventava così una chiave per interpretare una determinata filosofia della morte. E i sarcofagi romani sembravano proprio rivelare questi misteri, che possono togliere la paura della Morte.


"Natura insegna a noi temer la morte, ma Amor poi mirabilmente face suave a’ suoi quel ch’è ad ogni altro amaro".

Questi sono versi di Lorenzo de’ Medici: amore rende la morte meno amara. Amor come dolce-amaro. L’espressione deriva da Saffo, ma sembra che i filosofi neoplatonici lo ignorassero. 

Erasmo la farà derivare da Plauto, Ficino la presentò come un concetto orfico-platonico: 

"L’amore viene detto amaro (res amara) da Platone, e non a torto perché la morte è inseparabile dall’amore (quia moritur quisquis amat). E anche Orfeo chiamava l’amore dolce-amaro, perché l’amore è una morte volontaria. In quanto morte è amaro, ma essendo volontario è dolce".

Un dipinto di Lorenzo Lotto mostra Amor che incorona un teschio posato su un cuscino, emblema di dolcezza o voluptas.



Lorenzo Lotto, Vanitas, putto con teschio


Lara Pavanetto è laureata in Storia delle Istituzioni politiche e sociali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Studia da anni la storia della Serenissima, in particolare l’amministrazione della giustizia penale tra Cinquecento e Seicento scovando negli archivi processi e documenti che riguardano vicende inedite e misteriose.
Ha almeno attivo numerose pubblicazioni che spaziano dalla storia sociale a quella del pensiero magico.

Opere pubblicate dalla Pavanetto (cliccare per visualizzarle)



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