sabato 26 settembre 2020

IL TERRITTORIO DELLA PIANA DI CAPACCIO ATTRAVERSO UNA RICOGNIZIONE STORICA - CARTOGRAFICA : la cartografia napoletana del periodo aragonese.

 


La presunta cartografia aragonese è oggetto di un vero giallo storico che ha visto diversi studiosi confrontarsi con opinioni diverse. 

Tutto ha inizio con l'Abate Ferdinando Galliani, segretario dell'ambasciata napoletana a Parigi, erudito dai mille interessi, noto anche per i suoi studi di teoria economica. Questi trova nei Dépôts militari di Versailles due copie di una mappa del Regno di Napoli realizzate nel quattrocento, che avrebbe fatto copiare tra il 1767 ed il 1769. 

Le carte sono di eccezionale pregio. “Riportano con esattezza non solo città, castelli, torri, casali, santuari, ma anche monti, vallate, pianure, torrenti, fiumi, laghi, acquedotti, sorgenti, miniere, ponti, porti, mercati, ruderi di edifici antichi: elementi non riscontrabili tutti insieme in nessun’altra carta del tempo, neanche in quelle toscane, che pure sono ricche di dati, talché è nato il sospetto che si tratti di una falsificazione totale o parziale”. (1)

Le mappe sarebbero state fatte disegnare da Alfonso d'Aragona e poi, pare, trasferite in Francia da Carlo VIII con la conquista francese del Regno di Napoli del 1495. 

Sulla loro genesi vi sono diverse ipotesi. 

La prima vede “Giovanni Pontano, umanista di primo piano nella corte napoletana, maestro e segretario di Alfonso duca di Calabria, e dal 1487 primo ministro di re Ferdinando, ... farsi promotore di una cartografia a grande scala del Regno, indispensabile per le necessità politiche, amministrative, militari di uno stato moderno”. (2)

Il Pontano per realizzare tale progetto si sarebbe servito di “tecnici” per le varie mansioni necessarie alla realizzazione di tale mappa.

Vladimir Valerio, uno dei maggiori esperti di questo campo di studi, accenna alla possibile ipotesi per cui sarebbe stato partecipe di tale operazione il monaco celestino Marco Beneventano, matematico, astronomo, cartografo e curatore dell’edizione della "Geografia"  di Claudio Tolomeo pubblicata a Roma nel 1507, nonché amico del matematico Giovanni Cotta, frequentatore dell’Accademia Pontaniana. (3)

Fernando La Greca immagina che, chiunque sia o siano gli autori, queste mappe abbiano visto partecipi gli agrimensori-cartografi aragonesi e catalani della cerchia di Alfonso il Magnanimo. I cartografi nella loro realizzazione sarebbero partiti da copie medievali di carte romane, che avrebbero fornito la base fisica, sulla quale sarebbero stati eseguiti aggiustamenti e variazioni toponomastiche. 

Se fossero vere, si potrebbe pensare che a Napoli vi fossero le conoscenze geografiche e le competenze tecniche per realizzare una mappatura dell’intero Regno ad un livello decisamente superiore a quello che si era in grado di conseguire nell'Europa del tempo o nei due o tre secoli successivi. 

Quindi secondo Valerio e La Greca  si sarebbe realizzato un particolare mix di situazioni che potrebbe spiegare la presunta "accuratezza" di queste mappe. 

Da una parte le riforme amministrative avviate dagli aragonesi diedero loro strumenti di maggiore controllo e conoscenza del territorio permettendogli di acquisire dati come quelli relativi ai centri abitati e relative popolazioni, ad esempio, con i focatici. 

Dall'altra la possibilità di accedere ad antiche mappe romane utilizzate come basi su cui innestare gli aggiornamenti derivanti dall'attività della burocrazia aragonese, ma anche le informazioni raccolte dagli eruditi con lo studio dei testi antichi. 

La contestuale riscoperta della geografia tolemaica e la presenza nel regno di numerosi cosmografi furono ulteriori potenzialità. Se sommate, nel caso fosse provato più concretamente, ad un approccio diverso al disegno delle mappe grazie al contributo di “agrimensori”, che avrebbero potuto dare un'impronta più concreta e precisa all'impianto delle mappe (4), ci dovremmo trovare dinanzi a carte geografiche di eccezionale qualità e precisione. 

In realtà se queste mappe presentano un numero di particolari ed indicazioni per quantità e qualità sconosciute a quelle precedenti, le imprecisioni e gli errori, non di rado grossolani, sono non pochi. Più che un lavoro sul campo di "agrimensori", questa presunta mappa aragonese sembra invece un lavoro fatto a tavolino nel chiuso di uno studio sulla base di informazioni eterogenee e non sempre, probabilmente, coerenti fra di loro.

Nello specifico le presunte mappe aragonesi che proponiamo e che illustrano il Principato Citra, sono quelle conservate nella Bibliothèque Nationale de France. 

Particolare della Mappa Aragonese conservata presso la BNF, tratta da La Greca e Valerio, Paesaggio antico..., op. cit., pag. 42.


La mappa presenta diversi elementi interessanti, ma anche incongruenze e grossolani errori, non dissimilmente da quelle coeve.
 
Cominciando l'analisi da nord, abbiamo il “Silaro F(lumen), con una foce ad estuario e non a delta come nelle analoghe rappresentazioni cartografiche del tempo. Inoltre il suo percorso è più a nord come manifesta la presenza della Chiesetta di S.Vito sulla sinistra del fiume. Cosa vera perché attestata storicamente da diverse testimonianze, non ultima quella dell'Antonini. Questi, infatti, nella sua “Lucania” ricorda come al tempo del re Carlo II d'Angiò (1285-1309) una grande inondazione fece cambiare il corso del fiume più a sud, cosicché la chiesetta di San Vito si ritrovò dalla sinistra alla destra del Sele (5).

Compare  poi il "Barizzo”, ma non l'abitato di Mercatello, che sappiamo aver avuto per tutto il medioevo un ruolo economico di assoluto rilievo come approdo commerciale sul Sele. Probabilmente perché all'epoca della redazione della mappa, questo aveva già perso importanza se non era ormai addirittura scomparso. 

Troviamo poi "Palmi”, cioè il villaggio detto anche “Monte di Palma” (6), che ricadeva insieme a “S. Chirico” nei beni nel territorio di Capaccio del monastero di “S. Lorenzo de strictu”. Monastero istituito nell'attuale Castel San Lorenzo dal nobile longobardo Guaimario III di Capaccio agli inizi del XII sec.. Guaimario, poi, prenderà il saio benedettino e, prima di morire intorno al 1137, donerà il Convento alla Badia della SS. Trinità di Cava. 
Dell'abitato di Monte di Palma , Pietro Ebner, riferisce quanto detto in precedenza dal Di Stefano e cioè che “si vantavano i Rocchesi di averlo esso co' Capaccesi distrutto per una certa guerra con costoro nata: ma io come ho detto credo da detto esercito (di Federico II) rovinato” (7).

Più a ovest, dopo il Sele scendendo verso Paestum compaiono due curiosi toponimi: “S. Modesto” e “Santa Crescenza”. Toponimi che non hanno riscontro in alcun documento d'epoca, ma che sono però comprensibili alla luce della tradizione cristiana, che vuole tali santi rispettivamente come maestro e nutrice di San Vito, martirizzato proprio sulle sponde del fiume Sele. Si tratta evidentemente di un'invenzione erudita.

Inoltre compaiono altri nomi di località “particolari”: 
 “S. Pietro”, che rimanda all'antico casale del capoluogo ed alla sue chiesa, anticamente detto “Casali di Rodigliano di S.Pietro” o anche più semplicemente “li Casali di S.Pietro”; “Zappulo”, presunto toponimo probabilmente connesso alla antica famiglia capaccese degli Zappulli. Ritroviamo traccia di questa famiglia a Capaccio Paese nell' “Arco Zappulli” nei pressi di Piazza Orologio, che era uno dei “quattro pizzi” (Casecappolla) ricordati da un'antica poesia capaccese (8);
il casale “Campo Eliseo”, anch'esso sarebbe riconducibile ad un'omonima antica famiglia capaccese quella degli Eliseo, che ritroviamo quale odonimo nel Capoluogo, Via Eliseo, ma anche nella piana, come Via Cerro-Eliseo

Altro aspetto caratteristico della mappa, manifesto errore, è la duplicazione dello specchio d'acqua dove sorge il Capodifiume, che è reso in mappa come “Capo di Acqua” e come “Capo Fiume”, con relative derivazioni di un corso d'acqua dove solo uno è denominato come “Salso”. 

La Capaccio sul Monte Calpazio, ovvero Caputaquis, è indicata sulla mappa come "Novo", cioè "nuova".
Cosa che a noi contemporanei appare come un grossolano errore.
Eppure in tutte le carte geografiche sino alla fine del XVII secolo troveremo sempre indicate le due Capaccio come invertite nelle denominazioni di "Nuovo" e "Vecchio"

La spiegazione più diffusa è che si tratti di un errore di qualche “cartografo” del passato, poi ripetuto da quelli posteriori, compreso l'estensore (o gli estensori) della presunta carta aragonese, sempre che, se questa mappa non è un falso settecentesco, non ne sia proprio l'origine.

La spiegazione di tale inversione può però anche essere diversa e cioè che non si tratti di un errore.

Già Fernando la Greca segnala la possibilità che “si potrebbe avanzare un'altra spiegazione, basata non su una improbabile confusione, ma su una diversa evoluzione dell'onomastica locale. II centro distrutto, che noi oggi chiamiamo Capaccio Vecchio, era chiamato al suo sorgere "Capaccio Nuovo", come certificano le carte geografiche (sol che le si voglia prendere sul serio), e come risulta da numerose pergamene di Cava” (9). 

Ma è possibile pure immaginare molto più semplicemente che Caputaquis fosse “nuova” rispetto ad un primo insediamento proprio alle fonti del Capodifiume, dove vi era l'abitato, non per nulla detto, “Casavetere di Capaccio”. Da qui il nome “Capo d'Acqua” (o Caput Aquae") si sarebbe poi traslato sul nascente centro fortificato sul Monte Calpazio, cioè Caputaquis. 
Ciò però non spiegherebbe, se non per un altro probabile errore del geografo, perché Capaccio Capoluogo viene detta "Vecchia" rispetto a quella sul Monte Calpazio.
Infatti sappiamo con certezza che "li Casali di S. Pietro" o "di Rodiliano" cominceranno a denominarsi Capaccio solo nel XV secolo, mentre in età aragonese tale cambio era già un fatto compiuto.

È possibile quindi che questo cambio ormai radicato al tempo della presunta redazione della mappa aragonese, ma anche di quelle successive, possa essere la causa di un'apparente inversione, che potrebbe trovare le sue origini sia nella indicazione delle carte cavensi di una "civitas nova" in Caputaquis (10), sia in una possibile maggiore antichità dell'abitato del Capoluogo rispetto a quello sul Monte Calpazio.
Noto è che gran parte degli studiosi, con qualche eccezione (11), sono convinti che Caputaquis, come luogo abitato, non sia sorto prima del IX o X secolo. Diversamente dei primitivi casali di Capaccio Capoluogo molto poco si sa, se non che per tutto il medioevo tale località è appellata come Rodigliano (Ridiliano, Rediliano). (12)
Si è osservato come tale toponimo possa essere un gentilizio romano. Cosa che potrebbe fare ipotizzare antiche frequentazioni del sito e la presenza di una villa romana. 
Già Vincenzo Rubini, noto cultore di storia locale del passato, testimoniava la presenza in loco di numerose fosse per il grano, che egli considerava di età romana e che in alcuni casi erano ancora usate al tempo della sua gioventù. 
Se ciò fosse corretto nulla potrebbe non farci pensare che qui, in età tardo antica, fosse sorta una plebs, che ebbe nella primitiva chiesa di San Pietro il suo centro.

Inoltre Capaccio compare tre volte, se contiamo anche l'indicazione "S. Pietro".
Se poi guardiamo ai rilievi collinari notiamo ancora dei grossolani errori.
Abbiamo un "Monte Capo di Acio" che è una duplicazione del Calpazio, già riprodotto più in piccolo, là dove sorge la città, rappresentata come murata, di "Capaccio Nova". Interessante il riferimento all'Acio/Accio, altro nome antico del fiume Capodifiume.
Inoltre il "Calimarco" dovrebbe essere il Calpazio, mentre tale nome è attribuito al Monte Soprano. 
Il Monte Sottano non pare essere raffigurato, sempre che non lo sia stato come "Monte Canicna",  corruzione forse del classico "Cantenna", nelle cui vicinanze compare "Trentenara". Potrebbe trattarsi di una duplicazione/confusione tra i due monti, il Sottano e quello di Trentinara, rappresentato anche più in piccolo con alle sue falde Giungano.

Il Capodifiume appare come confluente nel Solofrone. Indicazione questa, che ritroviamo anche in molte altre mappe antiche, e che pare non infondata almeno per un suo ramo.

Alla confluenza dei due fiumi troviamo un insediamento denominato "Rillio" e verso est un altro.

Ultimo aspetto della presunta carta aragonese da trattare è quello relativo alla città di “Pesto”:
La città è disegnata in pianta ovale, con sei torri murarie, di grande estensione, e con numerose case all'interno, oltre ad una chiesa e ad un edificio rettangolare che potrebbe suggerire il profilo di un tempio; inoltre, essa appare dotata di due acquedotti, provenienti l'uno da Capo di Aqua e l'altro da Capaccio, e di un collegamento murato con un edificio sul mare, forse per l'ingresso e l'uscita dalla città mediante un percorso protetto” (13).

Tale rappresentazione della città antica anche se ideale, o meglio fantasiosa, ci mostra che però gli autori  di questa presunta mappa aragonese erano a conoscenza delle cinta muraria ed anche della presenza della Chiesa dell'Annunziata, che come abbiamo detto più volte, mantenne un ruolo di aggregazione religiosa e sociale nel tempo. Non solo era luogo di riferimento per tutti coloro che lavoravano nella piana per tutti quegli aspetti legati alla vita religiosa, ma qui vi si tenevano anche delle importanti fiere, che richiamavano mercanti da ogni dove. Come non è da escludere che proprio a Paestum vi si insediasse stagionalmente un piccola comunità per tutto quanto atteneva i vari interessi legati alla piana. In ultimo la torre collegata alla città da un improbabile camminamento protetto è quella sita sul lido di Paestum, che fu anche luogo di caricamento e scarico merci da e per Salerno e Napoli ma anche per diverse località del Mediterraneo occidentale e dove il feudatario, il Conte di Capaccio, esercitava i diritti di portolania. 

In conclusione possiamo esprimere un'opinione su tale mappa "aragonese", certamente di poco conto, essendo io un appassionato di storia locale più che un esperto. 
Dalla ricognizione dei particolari di tale mappa su scala locale, indipendentemente se si tratta di un falso settecentesco o di una copia tarda di un originale quattrocentesco, possiamo affermare che di certo non fu espressione di un lavoro sul campo, ma di uno fatto a tavolino sulla base di fonti etorogenee letterarie e documentali. Gli errori e le possibili "invenzioni" ci fanno supporre una sua redazione da parte di uno o più eruditi, che "assemblavano" le diverse informazioni raccolte senza avere reale cognizione dei luoghi. Probabilmente sulla base di carte geografiche precedenti su cui venivano aggiunti particolari ricavati da fonti letterarie e forse documenti antichi.
Di ciò ne sono interessanti indizi diversi particolari, il cui ricordo poteva sopravvivere al tempo della redazione della mappa o nella memoria popolare o tra le righe di documenti antichi.
L'imponenza di tale lavoro fatto su tutto l'allora Regno di Napoli, mi fa pensare ad un lavoro collettivo a più mani.

Altro aspetto interessante è che questa cosiddetta carta aragonese ha diverse somiglianze con quella realizzata da Giovanni Antonio Rizzi Zannoni per Mr. Dumont in “Les  ruines  de  Paestum  autrement  Posidonia”  del  1769, intitolata “Carte  de  la ville  et  des  environs  de  Poestum”.
Che Rizzi Zannoni abbia consultato le carte dell'Abate Galliani?
Dubbio del tutto lecito alla luce delle numerose somiglianze. Pare infatti che proprio su queste cosiddette mappe aragonesi, rinvenute e ricopiate dal Galliani in Francia, il Rizzi Zanoni abbia potuto comporre la "Carta Geografica della Sicilia prima o sia Regno di Napoli", in quattro fogli del 1769.

Nel prossimo post accenneremo alle rappresentazioni geografiche della Piana di Capaccio nel seicento.

Note

(1) Giovanni  Vitolo (a  cura  di),  La  rappresentazione  dello spazio nel  Mezzogiorno  aragonese.  Le  mappe  del  Principato Citra, pag.  5, La  Veglia  &  Carlone, 2016. 

(2) La  Greca  F.,  Valerio  V., Paesaggio  antico e  medioevale  nelle  mappe  aragonesi  di  Giovanni  Pontano, Le  terre  del Principati  Citra,  pag. 59, Centro di  Primozione  Culturale  per  il  Cilento,  Acciaroli  (Sa), 2008.

(3) Valerio  V., Le  pergamene  cartografiche  aragonesi  del  Regno  di  Napoli:  dubbi  e  certezze, in   Vitolo  G.  (a  cura  di), La  rappresentazione  dello spazio..., op. cit., da  pag.  9 e  ss..

(4)  Altra possibilità prospettata da chi  presuppone l'autenticità  di tali "mappe" è  che  queste passando di mano in mano nell'essere ricopiate si siano arricchite di particolari  che  in origine  non avevano. Processo di ricompilazione continuato sino al seicento. 

(5) Antonini  G., La  Lucania.  op. cit., p. 189.

(6) Si  veda  anche  ABC, XXXVII  38, 1180, XIV  dove  Giovanni  vende  la  “quattuor  partis”  di  tutti  i  suoi  beni  “in  loco ubi  Palma  dicitur”  alla  Badia  di  Cava  e  all'Episcopio di  Capaccio per  once  cinque  di  monete  di  Sicilia. 

(7) Ebner  P., Chiesa Baroni..., Vol. I,  op. cit., pag. 615.  Al di  là della personale  opinione  del  Di  Stefano  dovuta all'allora imperante  preiudizio anti-federiciano, molto più probabilmente anche “Palma” seguì la sorte dei tanti villaggi e paesi desertificati con la Guerra del Vespro.

(8)  Un'antica canzone popolare capaccese, che è un omaggio al paese, ma soprattutto alle  sue donne, assegna a ciascuna per  quartiere determinate caratteristiche: Capaccio bello, fatto a quattro pizzi, re'  tutt'e  quatto mme  so'  nnamorato, a Munticiello so li  musi  afflitti, a Santuliveto li  scummunecate, 'nCasecappolla ng'è  la rosa reccia, nmiezzo  lu Lauro la rosa ngarnata, si  vuoi  sapè  addò so le  Bellizzi, ra lu Tempone  fì  a lu Capostrata. (da  Gli  antichi  canti  di  Capaccio a  cura  di  Vincenzo Rubini, pag. 29,  Napoli, 1983.) 

(9) La  Greca  F.,  Paestum  e  il  suo territorio nella  cartografia  storica  medievale  e  moderna,  Annali  Storici  del  Principato Citra, X, 1, 2012, pag.  79.

(10) Natella però interpreta la "civitas nova", come un nuovo quartiere fortificato aggiuntosi nell'XI secolo a quello più antico. In P. Natella, Il castellum Caputaquis fra documentazione e storia (933-1085).

(11) Diversamente da altri il prof. Mario Mello suggerisce un collegamento antichissimo e costante, sulla base di taluni ritrovamenti archeologici, tra il Monte Calpazio e la Paestum greca e romana. Immagina così che le frequentazioni greche e romane del Monte Calpazio, su cui troppo poco si sa, siano evolute già in età tardo antica in un possibile primitivo piccolo luogo abitato. A sua opinione la chiesetta ritrovata nel sagrato del Santuario della Madonna del Granato potrebbe essere molto più antica di quanto di solito in ambito medievista si presuppone. Osserva infatti che se A. Burko e P. Peduto la indicano come precedente al IX secolo, non sono però così certi da poter escludere che possa essere addirittura del VI secolo. In M. Mello, Da Poseidonia a Caputaquis medievale, pag.70, Ed. Tored, 2018.

(12) Ad esempio nel CDC, 9, pag. 105 (anni 1065/1072) compare un'altra variante "Ridilianum": "Ego Petrus filius quondam Mauri su[b]diaconi clarifico me habere rebus in locum Trintinaria et in locum RIDILIANUM UBI PROPRIO MONTICELLUM DICITUR et in locum Pazzano ..."

(13) La  Greca  F.,  Paestum..., op. cit., pp. 77 – 78.

 


giovedì 24 settembre 2020

IL TERRITTORIO DELLA PIANA DI CAPACCIO ATTRAVERSO UNA RICOGNIZIONE STORICA - CARTOGRAFICA : la Tabula Peutingeriana e la cartografia tolemaica.

 



In questo articolo  tentiamo, con  i  nostri  modesti  mezzi,  un approccio  allo  studio del  territorio fondato sullo  studio incrociato  della  cartografia  delle  diverse  epoche  storiche con le  tante raffigurazione  artistiche  del  territorio, che  hanno un esempio  importante  nelle  diverse  vedute  della piana  pestana  dal  XVIII secolo  ad oggi, ma anche con le narrazioni di viaggiatori o le descrizioni dei luoghi contenuti in documenti d'epoca come gli atti notarili.

Fonti, quindi,  di  questa  ricerca sono la  non sempre facilmente  reperibile  cartografia del  Principato Citra e della Piana di Capaccio, ma  anche  quella  realizzata  dai  primi  studiosi  di  Paestum  e  delle  sue rovine  oltre  che l'immensa  produzione  di  vedute  che  dal  settecento raffigurano  non solo i  noti templi  ma anche il  territorio  circostante. 

Ad essa  potrebbe  aggiungersi,  in una  seconda  fase  di  approfondimento,  quella  reperibile  presso gli archivi  di  Stato  di  Salerno  e  Napoli.  In questo caso non si  tratta  di  opere  d'importanti  autori  della cartografia  generale  o “regionale”,  ma  di  tecnici  di  provincia  che  assumono le  qualifiche  più varie (ingegneri,  architetti, maestri,  mastri, geometri,  periti, agrimensori, tavolari,  compassatori,  ecc.), spesso riunite  nella  stessa  persona  anche  con  aggiunte  specificatorie  (camerale,  regio, forestale, provinciale,  provisorio, ecc.).  Si  tratta  di  “artisti”  che,  se  non sono inquadrati  in un ente  statale (Officio  Topografico,  Ponti  e  Strade, ecc.),  lavorano  su commissione  di  potentati  ed enti  feudali (laici  o religiosi),  trovando occasionale  impiego  nei  lavori  pubblici,  ma  anche  come  periti  o coadiuvanti  di  quest'ultimi  nelle  numerosissime  cause  civili  tra  cittadini, tra  questi  e  maggiori possidenti  o enti  di  varia  natura. 

La Tabula  Peutingeriana 

Una  delle  prime  rappresentazioni  cartografiche  che  toccano anche  il  nostro  territorio è  quella  della “Tabula Peutingeriana”  (ill. iniziale),  mappa  che  prende  il  nome  dall’umanista  Konrad Peutinger  che  la scoprì  alla  fine  del  XV  secolo. 

Di  datazione  controversa,  è  ritenuta  una  copia  di  età  medievale, databile  tra  il  XII e  il  XIII secolo,  da  un originale  romano  del  IV  secolo d.C..  La Tabula  indica  i  siti  e  le  strade  esistenti  nella  tarda  antichità  e  nel  periodo bizantino-longobardo almeno  fino a  Carlo Magno.


Ill. 1 - Cosmographia Nicolai  Germani,  Ulma, 1482.


Particolare  d'immediata  rilevanza  è  che  il  Silarum  f(lumen), cioè il Sele, è disegnato  erroneamente congiunto  a  nord con un altro fiume, il  cui  nome  non è  indicato  ma  che  per alcuni  è  il  Sarno. Questa congiuntura  potrebbe  però sottolineare  la  volontà  in  sede  di  redazione  di  distinguere  in modo  netto  i territori  compresi  tra  i  due  fiumi, i  Picentini.

Infatti  l’attuale  regione  Campania  non corrisponde  a quella  storica  romana,  il  cui  confine  era  proprio  il  fiume  Sele (1). Plinio nelle  sue  descrizioni  cita proprio l’Agro Picentino come  l’ultima  parte  della  Campania;  mentre  a  sud del  Sele  inizia  la Lucania  che  si  estende  sino al  fiume  Lao

Da Salerno passava  la  via Popilia/Annia   che  dopo 12 miglia  toccava  Picentia  (Icentiae), da  cui partiva  una  diramazione  per  Abellinum,  fino  ad arrivare 9 miglia  dopo al  ponte  sul  Sele  dove c’era,  secondo  l’itinerario,  una  stazione  del  servizio  postale  e/o un villaggio  chiamato Silarum/Silaron/Silarium, che  segnava  l’inizio della  Lucania. 

 Il  toponimo  Paestum  è  trascritto  nella  Tabula  con  un omissione  finale  (Pestū), da  alcuni  studiosi proposta  come  Pestum, da  altri  come  Pesti, considerando  quindi  una  resa  volgarizzata  del  toponimo romano.  Accanto  all'indicazione  di  Paestum  è  annotata  la  cifra  XXXVI, cioè  le  miglia  mancanti  alla città  successiva:  “Cesernia”. Numerose  ville  sorgevano lungo  la  strada  litoranea, che  da  Paestum  raggiungeva  le  attuali  località situate  tra  le  attuali  Agropoli  e  Sapri, passando per  Velia  e  Buxentum. 

L’esistenza  della  strada  è  attestata  da  Frontino,  che  riferisce  l’episodio (avvenuto tra  il  282 e  il  281 a.C.) nella  guerra  tra  Roma  e  Taranto, quando l’esercito  del  console  Emilio  Paolo percorse “una  stretta  via  lungo la  costa  in  Lucania”  (Strateg.,1,4,1). Il  nome  di  questa  strada  doveva  essere  forse,  all’epoca  degli  Antonini, quello di  Aurelia Nova,  come  proposto  dallo  studioso  Vittorio Bracco (2): un percorso costiero alternativo alle  vie  interne. Via  che  dovette  essere  ancora  in  uso in  tarda  età  come  pare  suggerire  l’itinerario seguito  dal vescovo pestano Felice  che  da  Acropoli  (Agropoli)  lo portò, su invito  di  papa  Gregorio Magno del 592 con l'epistola  Quoniam  Velinam (3), alle  comunità  cristiane  di  Velia  e  Buxentum. 

Altro aspetto  saliente  della  Tabula  è  che  in essa  mancano quasi  completamente  indicazioni  delle località  lucane,  che  pur in  età  romana  erano  di  rilievo.  Forse  perché  zone  di  “minor  traffico”  o prive di  luoghi  attrezzati  per  i  viaggiatori,  o forse,  volendo presupporre  delle  rielaborazioni  successive della  mappa  di  età  medievale,  perché  ormai  luoghi  non più  significativi  a  causa  del  loro spopolamento. Infatti  negli  scrittori  antichi  e  negli  itinerari  di  età  romana  abbiamo  molte  località  che  non sono presenti  nella  Tabula.  Ad esempio  Lucilio (II secolo  a.C.) cita  il  Portus  Alburnus  sul  Sele  (III, v.126), indicandone  implicitamente  la  navigabilità  fino all’interno, e  per  questo ipotizzato come variante  della  stazione  di  "Silaron", mentre Frontino  (I secolo d.C.) i  due  monti  del  territorio  pestano, il Calamatrum  e  il  Cantenna  (Strat., 2, 4-5), oppure  la  “Palude  Lucana”  a  cui  accennano  diversi autori  (Plutarco,  Sallustio,  Appiano  Alessandrino,  ecc.).  Ma  è  anche  vero che  la  Tabula Peutingeriana,  più che  essere  una  “carta”  che  vuol  descrivere  i  luoghi, ha  una  funzione  ben  diversa indicando  invece  dei  percorsi. Cosa  che  spiega  la  sua  essenzialità. 

La cartografia tolemaica 

Con cartografia  tolemaica  s'intende  tutta  la  produzione  cartografica  basata  sull'opera,  la “Geografia”,  dello  studioso alessandrino  Claudio  Tolomeo  (nato approssimativamente  intorno  100 d. C. e  morto  intorno al  175 d. C.). 

Opera  fondamentale,  non perché  la  prima  o perché  originale  nei  metodi  o nelle  tecniche, ma  perché sullo studio ed  applicazione  dei  metodi  e  principi  in  essa  contenuti  nacque  la  moderna  cartografia.

In essa  si  fa  uso della  latitudine  e  della  longitudine  per collocare  i  diversi  luoghi  sulla  superficie terrestre.  L'opera, quindi,  oltre  che  descrivere  metodi  ed individuare  dei  principi  teorici,  contiene dati  preziosi  per i  cartografi  posteriori  quali  le  coordinate  di  ben 6.345 località. In essa  vi  erano originalmente  anche  27 mappe  del  mondo purtroppo oggi perse.

Ill. 2 - “l'Italia”  di  Stefano Bonsignori, Firenze,  1589.


La“Geografia”  di  Tolomeo  era  ben conosciuta  dai  contemporanei  e  quindi  era  ampiamente  diffusa in tutto l'Impero  Romano, anche se però nei  secoli  successivi si ridusse al solo ambito bizantino. Nel  frattempo però l'opera  si  diffonde  nel  mondo  arabo sin da  IX  secolo d. C. E'  solo  agli  inizi  del  XIV  secolo che  un erudito  bizantino, Massimo  Planude,  la  riscopre  e  ne ricostruisce  le  mappe  perdute  sulla  base  dei  dati  contenuti  nel  testo. Ma la  nuova  fortuna  dell'opera  inizia  con la  traduzione  in latino del  1406 di  Jacopo  d'Angelo da Scarperia,  che  ebbe  una  grande  diffusione  (grazie  anche  alla  successiva  scoperta  della  stampa) e segnò la  rinascita  in Europa  della  cartografia  su basi  scientifiche  e  matematiche. 

Delle  numerose  carte  geografiche  fondate  sulle  indicazioni  del  “Geografia”  di  Tolomeo  ne propongo, la  “Cosmographia  Nicolai  Germani”  stampata  ad Ulma  nel  1482  (ill. 2) e  “l'Italia”  di Stefano Bonsignori,  un dipinto  ad olio  del  1589 (ill. 3), conservato  nella  “Stanza  delle  mappe”  del Museo di  Palazzo  Vecchio a  Firenze  e  la  “Geographia di  Claudio Tolomeo”,  edizione  curata dall'umanista  Girolamo Ruscelli  nel  1564.

Ill. 3 -  La Geographia di Claudio Tolomeo” del Ruscelli, 1564.

La  “Cosmographia  Nicolai  Germani”  è  una  delle  diverse  riedizioni  dell'opera  di  Jacopo d'Angelo del  1410. Nicolaus  Germanus  era  un benedettino nativo di  Ulm,  che  a  Firenze  fu autore  di  diversi atlanti  per l'alto  clero  del  tempo. Nello  specifico  l'estratto  della  stampa, che  proponiamo, fu realizzata da  Johannes  Schnitzer da Armsheim.   

In essa  compare  correttamente  localizzata  “Pestum”, tra  il Sele  e  le  colline  cilentane  (la  propaggine  verso la  costa  dell'Apenninus  Mons). Diversamente  dalle indicazioni  delle  fonti  storiche  compaiono  i  centri  di  “Blanda” (4) ed  “Ulci”  posizionate  più  o meno nell'area  della  Piana  del  Sele. 

In realtà  le  localizzazioni  eterogenee  di  diverse  località  sono la  norma  anche  nelle  diverse  riedizioni delle  mappe  del  “Geografia”  di  Tolomeo,  in quanto  ogni  curatore  vi  apponeva  delle  presunte “correzioni”  di  propria  mano. 

Stefano Bonsignori,  fu un religioso  olivetano e  cosmografo  al  servizio di  Francesco I de'  Medici. A lui  fu affidato  il  completamento  del  ciclo  delle  mappe  della  Sala  del  Guardaroba  a  Palazzo Vecchio. Le  mappe  furono dipinte  sugli  sportelli  degli  armadi  della  sala  e  quella  riprodotta  in estratto  è  una  di  esse  e  raffigura  “l'Italia”

Mappa  interessante  per  alcune  sue  incongruenze. Pest(um), infatti,  è  collocata  correttamente  a  sud di  “Eboli”, ma  a  nord del  “Silaro f(lumen)”. “Agropoli”  a  sud del  Sele,  ma  lambente  il  fiume.  E'  evidente  che  vi  è  stata  una  trasposizione  del Sele  sul  Solofrone.  Per di  più  “Capace”, cioè  Capaccio Nuova, appare  più a  sud, cioè  tra  Agropoli a  nord-ovest, il  centro  antico  scomparso di  “Cilento”  a  nord-est  ed il  “C. Dellabate”  a  sud-ovest.

La  “Geographia di  Claudio  Tolomeo”,  la  cui  traduzione  fu curata  dall'umanista  Girolamo Ruscelli e  la  stampa  realizzata  a  Venezia  nel  1564 ad  opera  di  Giordano  Ziletti,  ci  da  una  rappresentazione più accurata  e  precisa  dei  luoghi.  “Paestum”  è  correttamente  collocata  a  sud del  “Silarus  f.”,  che  fa da  confine  tra  la  regione  dei  Picentini  e  la  Lucania.

Nel prossimo post parleremo della cartografia napoletana del periodo aragonese e delle rappresentazione delle nostre zone nelle mappe di quel periodo.

Note

1 - La  Tabula  Peutingeriana  rappresenta  la  “Luccania”  fra  i  corsi  del  “Silarum  fl(umen)”  (il  Sele)  e  del  “Crater fl(umen)”.   

2 - Bracco  V.,  Della  Via  Popilia  (che  non fu  mai  Popilia), «Studi  lucani  e  meridionali»,  Galatina,  1977 

3 - Epist. XLIII  in  Ebner  P., Chiese  Baroni  e  Popoli  del  Cilento, I,  pag.  454. Edizioni  Storia  e  Letteratura, Roma, 1982.

4 - Si veda l'Antonini  nella  sua  “Lucania” o anche  tra  gli  altri  l'Holstenius (Olstenio)  L.,  (Note  all’Italia  antiqua  di Cluverio, Lucae  Holstenii  Annotationes in geographiam  sacram  Caroli  a  S. Paulo;  Italiam  antiquam  Cluverii  et thesaurum  geograficum  ortelii, ecc..,  Roma, typis  Iacobi  Dragondelli, 1666 e  altra  edizione  del  1624,  pp. 22 e  288. 






giovedì 3 settembre 2020

NOTIZIE STORICHE SU TORRE DI PAESTUM

 


La località, come è noto, prende il nome dalla torre di guardia, che la caratterizza ed intorno alla quale è sorto in maniera caotica e selvaggia il borgo attuale nella seconda metà del secolo scorso.

La località appare in un atto notarile settecentesco indicata con il toponimo "Brianza" , quale luogo di caricamento del grano prodotto nella piana pestana. Grano venduto a mercanti mediatori col metodo dell'asta con accensione delle candele.

È infatti proprio la funzione di approdo e porto di Pesto quella svolta per secoli da questa località. Borgo non lo fu mai prima del novecento, perché l'allora borgo era da lì poco distante, cioè Paestum, che mantenne la sua funzione di luogo abitato anche se di misere dimensioni sino alla modernità con l'istituzione del Parco Archeologico, che ne ha compresso lo sviluppo.

Infatti Pesto, o la più moderna sua denominazione, cioè Paestum, fu sempre luogo abitato, di aggregazione e di interessi vari. Prova ne sono le diverse ristrutturazioni della Chiesa dell'Annunziata realizzate sin dal medioevo, perché luogo in cui si recavano le genti del contado vicino per partecipare alle sacre funzioni e ricevere i sacramenti, e la frequentazione di mercanti sia per la presenza del vicino approdo di Torre, ma anche per le due grandi fiere che qui si tenevano da tempi antichissimi: quelle di San Apollonio e dell'Annunziata.

La presenza di un porto a servizio della commercializzazione delle produzioni locali e limitrofe è probabilmente antichissima. Ne abbiamo notizia già prima dell'anno mille come approdo commerciale del  monastero basiliano di  Santa Venera.

È da Torre di Mare, ma anche da altri approdi e porti sul Sele, come quello di Mercatello, che i prodotti locali e delle zone più interne, come il frumento ed il legname partivano per essere commercializzati. Cosa che nel primo medioevo avvenne attraverso la mediazione di mercanti amalfitani ed atranesi, che da lì li esportarono in tutto il Mediterraneo occidentale, in particolare verso il Nord Africa.

Questi traffici commerciali erano importante fonte di lucro anche per il feudatario di Capaccio, in quanto li tassava.

Così da un documento del 1469 apprendiamo:

"Allo conte di Capaccio el Re vole che l’exaptione  di una gabella  per esso et soi antecessori posseduta in  Capaccia di gr.  doie per tumolo de victuaglie quale s’extraheano da lo porto de Vesti  o d’altra  parte de ditta marina  per infra  Regno et che quella si possa exigere  secundo  è  stato  solito da ogni persona che  extraherà victuaglie  dallo ditto  porto et  splagia."  (1)

O in un altro di due anni precedente:

"Per comitem Capue Aquensis in Camera conquerebatur quod de victualibus que ex portu Pesti et Sileris de pertinentiis sive territorio civitatis Capue Aquensis infra Regnum por tantur cum barcis predittis ultra ius dohane, pro hiis que in terris suis non in lictore maris, infra terram per factum baliste emuntur sive empta sunt, ad dictum comitem spectat, tanquam ius baiulationis ad ipsum utilem dominum ipsarum terrarum spectantis. Exigere magister portulanus inten debat ius ad rationem carlenorum quindecim pro quolibet centenario salma rum: quod actenus ibi minime consuevit exigi, Camera mandat quod pro hiis huiusmodi ius quod aliter ibidem exaptum non fuit minime exigatur, et si pretenderitis aliter alios ibidem exigi, consuevisse recepta ab extrahentibus cautione dum taxat de solvendo quod inde per Cameram fuerit iudicatum et de consuetudi ne ipsa se informet, et Camere rescribat ut provideri possit. (2)

 Si discute poi se l'antico porto di Poseidonia  - Paestum fosse ubicato presso l'attuale Torre di Paestum, ipotesi che potrebbe essersi concretizzata nei primi anni di esistenza della città greca nella laguna posta tra il cordone dunale e le mura cittadine. 

Molto più probabilmente Poseidonia - Paestum fu servita da più porti posti a sud presso Agropoli e a nord alla foce e lungo il corso del Sele. Porti ed approdi che mantennero la loro funzione anche commerciale sin dopo la decadenza della città.

Ne sono un esempio in età tardo antica le plebs lungo il corso del Sele, come S. Vito, Ponte Barizzo o S. Lorenzo di Altavilla Silentina, o il Pactum Sicardi (del luglio dell'836), con cui il Principe Sicardo di Benevento firma un armistizio con i rappresentanti dei ducati "bizantini" di Napoli, Amalfi e Sorrento. Trattato importante perché con esso i mercanti di queste città potevano liberamente transitare e commerciare in tutti i territori sottoposti al governo dei Longobardi. Cosa che avrà risvolti importanti anche per la Piana di Paestum ed il Cilento, perché questi mercanti diverranno non solo i primi mediatori commerciali di quanto qui prodotto, ma anche perché con i loro investimenti contribuiranno allo sviluppo di queste zone.

Foto aerea di Torre di Paestum, 1934, fondo IGM, Firenze.



 Torre di Mare in una foto storica ©famiglia Gennaro Pecora



Note:

1 -  L(ite) ra del  Re Ferrante p°  expedita  p°  aprelis  1469 di retta a la Camera in re(ges) tro L(ite) rarum Regiarum 3°, f. 13. Il re a cui ci si riferisce è Ferrante  (Ferdinando)  I  d’Aragona, il Conte di Capaccio è invece Guglielmo Sanseverino.

2 - . L(ite) ra Camere XI° iulii 1467, in reg(es) tro Comune 1467, f.f 272, exemple tur.





La spiaggia di Torre di Paestum tratta da Paoli, Paolo Antonio. O.M.D. Rovine della città di Pesto, detta ancora Posidonia, Roma, 1784.

mercoledì 2 settembre 2020

 



Questa mappa redatta da un agrimensore è assolutamente interessante perché "prova" per una lite giudiziaria (disegnata cioè da un equivalente del moderno CTU) e quindi sostanzialmente veritiera sullo stato dei luoghi nel XIX secolo.

In alto è possibile vedere il Santuario della Madonna del Granato con le due strade da cui era possibile arrivarvi.

Una è quella, tutt'ora esistente,  cioè Via Sferracavallo, che partendo dalla SS 166, in località Vuccolo Maiorano, arriva in cima al Monte Calpazio, innestandosi in Via Francesco Crispi. 

Sul versante mare del Monte Calpazio oggi vi è l'altro ramo della Sferracavallo, che parte dalla piazzetta e si immette sulla SS 13a (per capire dove è l'edicola della Madonna del Granato). Anticamente invece vi era un'altra strada che come possiamo vedere seguiva un percorso un po' diverso.

Sul Capodifiume possiamo vedere uno dei mulini che allora sorgevano sul corso del fiume, quello in cui oggi si svolge una attività di ristorazione.

Più in alto su quella che era l'antica via per il Cilento, cioè più o meno l'attuale SP 318, vi è un edificio esistente tutt'ora, ma irriconoscibile, che difficilmente farebbe immaginare essere così antico: l'antica Taverna del Conte.

Era  qui  che  secondo  un decreto  del  1567 era  concesso  al feudatario della Contea di Capaccio il  diritto  di riscuotere  la  “Pandetta seu Tariffa”,  cioè  il  pedaggio  che  doveva pagare  chi  percorreva  la  Via per il  Cilento.  Questa  era  una  delle  tre  vie  che  attraversavano la  piana  capaccese  da  nord a  sud. Una  era  costiera, più  un sentiero che  una  via,  ma  scarsamente  usata, perché  prossima  alle  zone impaludate.  Partiva  dalla  torre  costiera  del  Sele,  attraversava  lo  spazio tra  la  riva  e  l'acquitrino  detto Sele  Morto, per  giungere  all'altra  torre  sul  lido di  Paestum  e  quindi  risalire  verso l'antica  città. Probabilmente  in uso da  chi  prestava  servizio presso le  torri di guardia e  da  pescatori o forse connessa con l'antico Portus Maris, che secondo alcuni era alla foce del Sele in quello che era detto Lago Paolino e poi Sele Morto.

 Quella  mediana, partiva  con la  Cilentana  dall'approdo  della  scafa  e  giunta  al  Barizzo  si  disgiungeva dall'altra  puntando verso Paestum. La  più  importante  e  trafficata,  ma  anche  la  più antica, era  proprio la  Via  per il  Cilento,  che costeggiava la  piana  ai  piedi  dei  rilievi  collinari. Questa era  quella  più  sicura  anche  rispetto  al  pericolo  di un possibile  contagio  malarico (mal-aria).

 Non è  un caso quindi  che  il  decreto  del  1567 imponesse  che  proprio  su questa  strada  e  “proprio nella  taverna  e  non in  altro  luogo” gli uomini del Conte di Capaccio dovessero riscuotere  il  pedaggio. Appresso la  Taverna del  Conte  a  Capodifiume, si  trovava  dopo quasi  due  chilometri  la  “Taverna di Giancesare”  ,  la  cui  memoria  sopravvive  nell'omonimo  toponimo  locale. Non caso, a  mia  opinione, nei  pressi  di  entrambe  le  taverne  erano presenti  delle  fonti  di  acqua  potabile, utili per dissetare  dopo il  lungo  tragitto uomini  ed  animali.

A proposito... avete capito quale è l'attuale edificio che anticamente svolgeva la funzione di taverna? 



Immagine 1: pianta ottocentesca del Calpazio e di Capo di Fiume.
Immagine 2: Illustrazione  dei  dintorni  della Città di  Paestum, tav. 1, da Le  Ruins de  Paestum..., 1798.



martedì 1 settembre 2020

IL SISTEMA DIFENSIVO NELLA PIANA DI CAPACCIO PAESTUM TRA MEDIOEVO E PRIMA MODERNITÀ.

 



È noto come sin dal primo medioevo la nostra zona sia stata interessata prima dalle incursioni saracene e poi da quelle barbaresche, come anche da molte vicende belliche che interessarono il Regno di Napoli, tra cui la ben nota Guerra del Vespro.

In particolare le incursioni saracene prima e poi quelle corsare barbaresche spinsero le popolazioni dei centri abitati presso la costa a spostarsi verso l'interno, cosa che comunque non le mise completamente al riparo da tali sciagure come da altri eventi bellici.

Ciò però non significa che le zone costiere non fossero ancora luogo di interessi economici o piuttosto fossero completamente disabitate.

Difatti sappiamo della laboriosa opera di recupero e messa cultura di non pochi luoghi della Piana di Capaccio per iniziativa sia dei monaci greci (nel senso di rito greco, cioè ortodosso) che dei Benedettini, come anche delle popolazioni locali.

Sul Capodifiume e sul Solofrone sorsero numerosi mulini, indice di una notevole produzione di cereali, che poi attraverso l'approdo di Torre di Paestum e dei diversi porti fluviali sul Sele, prendevano la via di Salerno, Napoli e della Costiera Amalfitana, dove i mercanti atranesi ed amalfitani li commercializzavano in tutto il Mediterraneo, specie verso il Nord Africa. 

Altro bene commerciale nostrano che trovava spazio in un ambito internazionale sempre attraverso la mediazione degli amalfitani era il legname proveniente dalle zone interne.

Bene considerato di grosso pregio e valore.

Non mancavano poi villaggi e casali che ritroviamo citati nei documenti d'epoca, quali  Gromola, S. Basilio, Spinazzo,  S. Barbara, Casavetere di Capaccio (Capodifiume), Silifone  e  Mercatello.

In particolare è interessante la dizione di "castrum" con cui sono citati alcuni di questi insediamenti nei documenti cavensi. 

La notizia ce la fornisce il Ventimiglia nel suo "Notizie storiche del Castello dell'Abate...", dove cita "Spinacium, castrum apud Capuacum", S. Barbara e "S. Nicolaus, castrum ultras fluvium Silarum" (cioè Mercatello sul Sele).

Da precisare che con "castrum" nel tempo e nei luoghi si sono intese cose assai diverse, ma accomunate dal concetto di luogo difeso.

Si va quindi dal castello, al villaggio fortificato, sino ad una costruzione non necessariamente militare fortificata come una torre, un mastio o anche una masseria.

Ciò, se fosse ulteriormente confermato ci darebbe un quadro diverso del sistema di difesa del territorio che non si esauriva nei due castelli di Caputaquae e di Agropoli o nelle torri costiere.

Dovremmo, poi, aggiungere un ulteriore tassello al quadro da noi sommariamente delineato, cioè la presenza nell'attuale Barizzo di una fortificazione, costituita da almeno un mastio, di cui alcuni suoi elementi strutturali, nel suo rifacimento cinquecentesco, sono ancor oggi visibili nell'architettura della villa di scuola vanvitelliana dei Principi Doria d'Angri: le sue mura perimetrali inclinate e spesse 2.2 metri e la cisterna centrale alimentata da una fonte d'acqua.

Salvo questi elementi fisici di questa fortificazione non abbiamo notizie documentali dirette.

Sarebbe interessante quindi una ricognizione della documentazione archivistica della famiglia Doria presso l'archivio di stato di Napoli per trovare dei riscontri.

Abbiamo però un possibile riscontro indiretto nell'opera di Teodorico di Niem, De Schismate, redatta fra il 1407 e il 1410, che descrive la fuga da Nocera di papà Urbano VI sino ad una fortificazione sul Sele, dove poi delle galere genovesi lo avrebbero tratto in salvo.

Questa fortificazione è denominata in diversi modi da Teodorico di Niem (castro  fluviarii, portum  fluminarium,  loco  fluminario) ma sempre collocato presso il fiume Sele.

Potrebbe quindi trattarsi di questo mastio a Pontebarizzo, come anche riferirsi a Mercatello, che abbiamo visto denominato "castrum" nei documenti cavensi citati dal Ventimiglia.

Resta comunque impensabile che quella che era la masseria più importante del feudatario di Capaccio, avente funzione centrale e direttiva nell'economia dei suoi domini, ma anche luogo della sua autorità di governente e "barone", non fosse anche fortificata. Fortificazione che, poi venuta meno nelle sue funzioni di difesa, fu sostituita nel settecento da una più elegante e alla moda villa.

A completare il sistema di difesa della sinistra Sele, vi erano le ben note torri di guardia (del Sele, di Paestum e di S. Marco).

Alessandro La Volpe (1820 -1887), Marina di Paestum.


Foto storica della Torre di Foce Sele dall'archivio di Massimo Caramante


Sicuramente queste torri rientrarono nel piano dei viceré spagnoli (XVI sec.) di organizzazione di un sistema di guardia e di difesa delle coste del regno, come un'ampia documentazione archivistica attesta (sappiamo in molti casi persino il nome delle maestranze e la data di inizio dei lavori).

Meno noto è che non tutte le torri di questo articolato sistema di difesa furono costruite allora. Alcune sono molto più antiche e risalgono a periodi antecedenti, come quelle costruite sotto i sovrani normanni o angioini.

Un esempio ci è dato da un documento cavense del XIII secolo (Arca L, n. 23) che riprende una "direttiva" di Federico II, che ordinava la riparazione e manutenzione delle torri costiere cilentane e che vedeva partecipi nell'atto "di recepimento" i rappresentanti dei più potenti baroni locali, cioè la Badia ed il Vescovo di Capaccio.

Le torri non sono esplicitamente indicate, ma comunemente si ritiene fra gli studiosi che siano quelle cilentane di Tresino, di Licosa, di Cannicchio, di Ascea, di Palinuro e di San Giovanni a Piro.

Tra queste in un suo studio A. La Greca inserisce anche quella di S. Marco di Agropoli forse perché rientrante anch'essa nel dominio di uno di quei potenti signori feudali di cui si fa cenno nel documento cavense, cioè il vescovo di Capaccio.

Possono quindi essere più antiche le torri di Paestum e sul Sele?

Taluni studiosi pensano di sì, indicandole come di età angioina. Altri decisamente no!


Immagine 1: la Piana di Capaccio Paestum in una presunta mappa aragonese (XV sec.).