lunedì 25 settembre 2017

EVERSIONI, EMERSIONI E LIBERAZIONI: PICCOLO PERCORSO STORICO SUL TARANTOLISMO ED IL BALLO DI SAN VITO.


La "coreutia" o arte arte coreutica (dal greco chorèia, cioè danza) è ciò che rimane in ambito popolare di antiche tradizioni sciamaniche, che in Italia meridionale sono transitate attraverso l'età classica ed il medioevo sino a noi. 
La danza, come strumento terapeutico, esorcistico ma anche di raggiungimento della trance estatica, è una tipicità proprio della tradizione sciamanica, anche se oggi è ridotta a fenomeno culturale e d'intrattenimento folkloristico.
La "tarantella", di cui la "pizzica" (dal pizzico o morso della tarantola) è una variante locale, diventa quindi protagonista di questo rito "esorcistico" di guarigione. Condizione essenziale del rito è che la "taranta" fosse “ballerina” e che per farla “crepare” sia necessario mimarne la danza: la tarantella. 
Di fatto il tarantolato, o come più spesso accadeva la tarantolata, era tale perché posseduto dal ragno, che bisognava quindi esorcizzare nella danza per indebolirlo e schiacciarlo. Il ballo assumeva così valore terapeutico ed il rito "esorcistico" proprio sul ballo era incentrato.
Cominciava in genere con la tarantolata stesa a terra che al ritmo della musica cominciava a muovere le dita, le mani, i piedi e presa dalle convulsività ritmica infine tutto il corpo. 
Le crisi e quindi i balli si susseguivano anche per più giorni prima che la "possessione" arrivasse a soluzione ed il male scomparisse. 



La pizzicata, come esempio folkloristico del rito esorcistico delle tarantolate.

Nel passo che segue, tratto dalle "Antichità Pestane" (1), Giuseppe Bamonte, canonico della Cattedrale di Capaccio e socio corrispondente della Reale Società Agraria di Salerno, descrive un caso di tarantismo così come ebbe egli stesso ad osservarlo in una donna cinquantenne del luogo. 

"Nelle stesse campagne Pestane, specialmente nel luogo detto di Tempe di San Paolo trovasi un'altro insetto chiamato tarantola: ha la figura e la grandezza de' ragnateli di campagna, di varj colori, ma non ordisce tela, e comparisce nel tempo della messe.
Se alcuno ne viene morso, subito resta compreso in tutto il corpo da veleno, che lo crucia con forti dolori senz'altro rimedio che di suoni e balli.
Il paziente dopo aver intesi suoni di varj strumenti, e varie sonate di ballo, finalmente si muove a ballare, con uno che più le dà a genio; si riscalda nel ballo, prorompendo in voci di allegrezza e quasi pazzia, è mostra tutto il suo piacere al ballo, non che alla persona prescelta: finalmente stancato si slancia tra le braccia di due persone all'uopo preparate in piedi; si addormenta subito: dorme poco; si risveglia sano senza alcun dolore, e senza niente ricordarsi di quanto gli è accaduto, menocchè del morso ricevuto.
Suol durare il patimento due, e tre giornate, finché l'istromento,  la sonata, la persona non hanno incontrato il di lui piacere.
Ho veduto tutto ciò avverarsi in una donna di cinquant'anni. " 




Altro esempio affine è il cosiddetto "Ballo di San Vito", che nella tradizione storica era connesso ad una più variegato numeri di mali mentre la moderna scienza medica la restringe alla sola còrea di Sydenham (chorea minor).
Anche del Ballo di San Vito abbiamo numerose testimonianze storiche, specie di età medioevale, anzi pare che nell'Europa tra il XIII ed il XVII secolo ebbe carattere endemico con l'esempio eclatante di Aquisgrana del 1374.
Scrive Justus Friedrich Karl Hecker nel suo "La danzimania malattia popolare nel medio-evo" (2):


"Non erano ancora dissipati che derivarono dalla Morte Nera (3)..., allorché in Germania una strana manìa investì gli animi... Una convulsione, uno spasimo investiva stranamente il corpo, è per ben due secoli eccitò lo stupore dei contemporanei; e dopo quell'epoca non si fece più vedere. Venne dessa appellata Ballo di San Giovanni, ovvero di San Vito, e ciò per i salti con cui gli ammalati a guisa di baccanti, uniti in orde selvagge, schiamazzando, e con la schiuma alla bocca, offrivano l'aspetto di ossessi. (...) Già nell'anno 1374 si videro in Aquisgrana turbe di uomini e di donne procedenti dalla Germania, che riuniti da delirio comune sì nelle strade, che nelle chiese offrivano al popolo tale uno strano spettacolo. Uniti mano con mano formavano dei circoli, e privi quasi dei sensi e furenti danzavano per varie ore di seguito senza prendere vergogna dei circostanti, sinché spossati cadevano al suolo, indi si querelavano di forte ambascia, e spiravano come fossero preso a morte, finché si fasciava loro fortemente il ventre con panni: dopo di che si riavevano, e restavano liberi sino al prossimo assalto. (...) Durante la danza avevano delle apparizioni, non vedevano, non udivano, la immaginazione presentava loro dei fantasmi,  di cui balbettavano i nomi, ed alcuni narravano di poi, che sembrando loro di essere come immersi in un torrente di sangue, erano costretti a saltare così alto. Altri nelle loro convulsioni vedeansi spalancato il Cielo, ed il Salvatore sedente sul trono, presso di lui la divina Madre, secondo che la credenza di quei tempi agiva meravigliosamente sulla loro fantasia. (...) Questa diabolica malattia si diffuse in pochi mesi da Aquisgrana dove era comparsa in luglio nei vicini Paesi Bassi. In Luttich (Liegi) Utrecht, Tongern, ed in parecchie altre città del Belgio comparvero i ballerini di S. Giovanni con ghirlande in testa, e col ventre stretto da panni, ... Nelle città e campagne le chiese riempironsi di devoti, da per tutto furono stabilite processioni, celebrate messe, e tutto risuonava di inni ecclesiastici, in somma universale era il terrore incusso da una malattia, la cui origine diabolica nessuno osava mettere in dubbio. In Liegi i sacerdoti pensarono di ricorrere agli esorcismi, e cercarono a tutta possa di allontanare un flagello, che sembrava minacciarli, mentre gli ossessi riuniti in truppe vomitavano imprecazioni contro di essi, e volevano ucciderli. (...) I Sacerdoti credevano di doversi persuadere ogni giorno più essere gli ossessi una specie di settarii, e perciò si affrettavano cogli esorcismi, onde il male non dilagasse nelle classi superiori, mentre allora erano stati attaccati i soli poveri. (...) E realmente alcuni ossessi durante gli esorcismi avevano esternato che si avrebbe dovuto lasciare i demoni ancora poche settimane, che allora sarebbero passati ad invadere i corpi delle persone ragguardevoli e dei principi, e coll'opera di essi avrebbero distrutto il Clero. (...) Quindi con tanto maggiore calore i sacerdoti cercavano di prevenire una sì pericolosa disposizione popolare, quasi che la follia avesse potuto realmente minacciare l'ordine stabilito delle cose. I loro sforzi ebbero effetto; poiché nel secolo decimoquarto gli esorcismi erano un efficacissimo presidio; sia che quello stato di frenetico esaltamento trovasse il suo fine nello spontaneo successivo abbattimento, dopo dieci mesi nelle città del Belgio non si vedeva più alcun ballerino di S. Giovanni. Ma il male avea messo radici troppo profonde, per essere svelto del tutto e con tanta facilità. Un mese dopo la sua comparsa ad Aquisgrana, mostrossi danzmania in Colonia, dove furonvi oltre cinquecento essessi, e verso lo stesso tempo in Metz, dove si vuole che mille e cento danzatori ingombrassero le pubbliche vie." (4)
Ma a Strasburgo nel 1418 non andò meglio:
Molti centinaja cominciarono a Starsburgo
uomo e donna, a ballare e a saltare, 
sulle pubbliche piazze, vicoli e strade, 
giorno e notte; molti di loro non mangiavano 
finché cessava il furore. Questo flagello appellosi Ballo di San Vito. (5)
Naturalmente il "tarantolismo" ed il "ballo di S. Vito", malgrado le somiglianze, sono due fenomeni distinti.

Il primo era un vero e proprio "rito" curativo e nel contempo anche "catartico". Infatti la ricerca etnografica a partire con Ernesto De Martino vi ha visto anche una cura dell'anima, di quei conflitti interiori irrisolti, cioè di risoluzione dei conflitti psichici individuali che ri-mordono nell'oscurità dell'inconscio.

Dice Ernesto De Martino nel suo "La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud":

"Nella cresi del tarantismo il rimorso non sta nel ricordo di un cattivo passato, ma nell'impossibilità di ricordarlo per deciderlo e nella servitù di doverlo subire mascherato in una nevrosi: è proprio per questo rischioso vuoto della memoria e per il conseguente carattere di estraneità; che il sintomo mascherato assume per la coscienza il sintomo del tarantismo configura come primo morso; ciò che è in realtà un ri-morso; di un episodio critico del passato, di conflitto rimasto senza scelta. D'altra parte proprio attraverso il sintomo della taranta, tale conflitto entra nella coscienza, sia pure nella forma alienata di una taranta che morde ed avvelena: vi entra però non come sintomo della malattia, ma come progetto di evocazione e di deflusso, di ripresa e di reintegrazione, come sistema simbolico di una taranta avvelenatrice, che ha ritmo, melodia, canto, danza, colore e che può essere ascoltata, cantata e vista durante l'identificazione agonistica della danza della piccola taranta.
Il simbolo della taranta mette in movimento un sistema di sicurezza che ha tutti i caratteri della plasmazione culturale: attraverso il suo proprio orizzonte e gli orizzonti simbolici minori cui presiede, le singole crisi individuali sono sottratte alla loro incomunicabilità nevrotica, per ricevere una comune plasmazione nel comportamento dell'avvelenato e per fruire di un comune trattamento risolutivo per mezzo della musica, della danza e dei colori e di quant'altro dispone il dispositivo in azione." (6)  

Il secondo, nella medicina moderna, è inteso in riferimento all'affezione, che si manifesta in movimenti scomposti e compulsivi, di natura prevalentemente neurologica (fermandosi cioè al dato fisico), anche se, come abbiamo visto, nell'antichità evidentemente si faceva invece riferimento ad una gamma più vasta di mali esprimentisi attraverso i caratteristici "balli", che erano sicuramente qualcosa di più di semplici movimenti compulsivi propri di una patologia del sistema nervoso così come descritta nella sintomatologia della corea minor, assumendo invece tutte le caratteristiche proprie di un' "isteria di massa".
Aspetto questo, che trova in molti riferimenti storici, una sua allocazione in un contesto più vasto.

Già in epoca classico alcuni studiosi hanno intravisto la possibilità di collegamenti tra il tarantismo, come noi lo conosciamo, e la tradizione sacra greca. Infatti nella Sicinnide, danza rituale nei baccanali, gli officianti pare usassero una veste detta "tarantinula", che ci ricorda per l'appunto l'omonimo ballo legato al tarantolismo.
 Di diverso avviso il Naselli, che nel suo studio etimologico  lega la voce tardo latina “tarenta” e dei dialetti meridionali "taranta" al nome della città di Taranto (Ταρας, Tarentum) ed ai corrispettivi diminuitivi di “tarentula” (in volgare “tarantola") e "tarantella" (7).

L'Arpeggiata - Athanasius Kircher (1602-1680) - Tarantella Napoletana, Tono Hypodorico



Di certo già Platone nelle sue opere, il Fedro ed l'Eutidemo, descrive fenomeni simili al tarantolismo nell'antica Grecia. Nel Fedro distingue la cosiddetta follia dalla "giusta mania" la cui funzione è quella di regolarizzare l'eccesso di irragionevolezza dandole un'orientazione telestica, nella seconda accenna più compiutamente all'impiego di formule cantate per annullare le conseguenze dei morsi di scorpioni, serpenti e ragni malefici. Così Socrate nella sua seconda orazione del il Fedro dice:
"Oh tu, io ora vo' che pensi che la prima orazione era di Fedro figliuol di Pitocle, mirrinusio, e quella che dirò io, di Stesicoro figliuolo di Eufemo, imerese. E dirò cosí:
Non è orazion verace quella che, presente un che ama, dica che si ha a esser graziosi piú presto a un che non ama, per ciò che l'uno è in furore e l'altro è savio: perché, se la mania fosse schiettamente un male, direbbe vero; ma non è, anzi i piú grandi beni ci vengono per mania, quella, intendo io, data per divino dono dagl'Iddii. E veramente la profetessa a Delfo e le sacerdotesse a Dodona fecero all'Ellade molte e belle cose, alle private persone e alla comunità, essendo in furore; savie, poco o niente. E se mentovassimo Sibilla e tutti quelli altri che giovandosi della mantica, dono degli Iddii, dirizzando l'occhio entro il futuro, profetarono molte cose a molti, anderemmo per la lunga, dicendo ciò che pur noto è a ciascuno. Niente di meno si vuol testificare che quelli antichi, i quali posero i nomi, non riputarono brutta la mania né ontosa; se no, la bellissima arte per la quale si scerne il futuro, non la chiamavan manica, involgendoci quell'istesso nome; ma giudicandola cosa bella quando essa è per divino fato, la chiamaron cosí. I novelli poi, della bellezza selvaggi, gittandoci il tau (τ) dentro la chiamaron mantica. E anche la investigazion che si fa dai savii, del futuro, per uccelli o per altri segni, perciò che per discorso di mente essi alla estimativa umana procurano intendimento e cognizione delle cose, οἱo-nistica (οἰονoϊστικήν) la denominarono gli antichi; la quale con un o lungo (ω) magnificando, oioonistica (οἱωνιστικήν), la chiaman cosí i novelli. Ora, quanto piú è perfetta e onorata la mantica della oionistica, il nome del nome, la cosa della cosa; tanto, dicon gli antichi, la mania veniente dagl'Iddii piú essere bella della saviezza che è negli uomini. E mandando morbi e travagli la collera di alcuno Iddio ad alcune genti, per antichi peccati, se avvenne che si generasse mania in alcuno, essa, profetando ciò che era bisogno e confortando quelle a supplicare e a inchinarsi all'Iddio, trovò la via di salvazione; e procacciando la purgazione e la iniziazione ne' misterii allo invasato e dirittamente infuriato, fe' lui incolume e libero da' mali, allora e poi. (...)" (8)

Così sulla base di queste memorie di usi, riti e tradizioni dell'antichità per alcuni autori vi è una continuità storica, che vede nella "tarantella" e nel tarantismo le vestigia di tale passato.
Così Henry Swinburne nel suo "Travels in the Two Sicilies" dopo aver descritto minuziosamente il rito purificatorio a cui ha assistito conclude a proposito degli officianti che:
"...They are axact copies of the ancients priestesses of Bacchus. The orgies of that God, whose whorship, under various symbol, was more widely spread over the globe than that of any other divinity, were, no doubt, performed with energy end enthusiasm by the lively inhabitans of this warm climate. The introduction of Christianity abolished all public exhibition  of these heathenish rites, and the women durst no longer act a frantic part in the character of Bacchantes." (9)
Ma è  a metà del XIV secolo nel "Sertum papale de venenis" di Guglielmo Marra da Padova, un ricettario medico sulla cura degli avvelenamenti, che troviamo uno dei primi accenni alla pratica del tarantolismo: 
"quando il malato ode una melodia che coincide con il canto del ragno da cui è stato morso, ne trova giovamento".
Da allora si susseguono numerose citazioni e studi del fenomeno a cui non si sottraggono personaggi come Heinrich Cornelius Agrippa nel De Occulta Philosophia, Athanasius Kircher nel Magnes sive de arte magnetica (10) o anche Leonardo da Vinci che nel suo "Bestiario" sinteticamente afferma:
"  Il morso della taranta mantiene l'omo nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso." (11)
 Affermazione questa di Leonardo non poco interessante...


Oggi è evidente che fenomeni come il tarantolismo sono gli strumenti elaborati dagli antichi, forse attraverso un'esperienza sapienziale, empiricamente comprovata dai risultati nel tempo, con cui si realizzava una "cura" non solo "fisica" o della psiche individuale, ma anche di quella "collettiva".
Di certo tali pratiche trovarono l'opposizione della cristianità, che vi intravedeva un elemento perturbatore ed eversivo dell'ordine sociale e morale, anche se in alcuni casi, come nel leccese, si cercò di dargli una caratterizzazione cristiana. Nel senso che se non puoi vincerlo, fallo tuo caratterizzandolo.
C'è poi chi vede una certa continuità tra tali fenomeni con alcuni della nostra contemporaneità, cioè i "rave" ed i grandi raduni hippy degli anni sessanta, come ad una sorta di forma rinnovata di misticismo collettivo e delle grandi trance collettive delle culture tradizionali (12).
 Infine, poi, possiamo solo chiederci se il tarantismo o il Ballo di San Vito siano solo superstizioni o possano essere intese come le vestigia di antiche conoscenze sapienziali.
 E se fossero invece anche la manifestazione di bisogni profondi del nostro essere?

Ma forse il giusto epilogo di questa riflessione sono le parole di G. Camilla:
"  L'uomo moderno, "civilizzato", si sente molto superiore a queste manifestazioni che definisce "primitive", e le disprezza. Ma nella sostanza continua a comportarsi nella stessa identica maniera (...). Come il cosiddetto "primitivo" siamo posseduti da contenuti inconsci disturbanti, abbiamo gli stessi esorcismi protettivi. Certo, non ci serviamo più di talismani, di formule magiche, di sacrifici di animali: ci serviamo però di ideologie, razionalismi, concettualizzazioni, malattie psicosomatiche, .."(13)







Note:
(1) Le Antichità Pestane, Giuseppe Bamonte, Napoli, 1819.
(2) Justus Friedrich Karl Hecker , La danzimania malattia popolare nel medio-evo, Firenze, 1838.
(3) La peste.
(4) Justus Friedrich Karl Hecker, op. cit., pag. 9 e ss.
(5) Schilterra, Strasburgo 1689, in 4. Nota 21 del Ballo di San Vito, pag. 1085 e ss.
(6) Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, pag. 201 e 202, Il Saggiatore, Milano 2009.
(7) C. Naselli, L’Etimologia di «Tarantella», estratto dall’Archivio Storico
Pugliese, anno IV, Bari 1951, fasc. III-IV, Bari, Cressati, 1951. Ibidem, Studi
di Folklore, Catania, Crisafulli Editore, 1953, pp. 87-101.
(8)  "Dialoghi", di Platone; nella versione di Francesco Acri; a cura di Carlo Carena; pag. 17 e 18, CDE, stampa; Milano, 1988.
(9) Henry Swinburne, Travels in the Two Sicilies ...: In the Years 1777, 1778, 1779 ..., Volume 2, pag. 306, London, 1740.
(10) Athanasius Kircher ne parla nel Magnes sive de arte magnetica libri tres (Roma 1641)
oltre che nel Musurgia universalis sive ars magna consoni et dissoni (Roma 1650)  ma anche nel  Phonurgia Nova  (Campidonae 1673).
(11) Leonardo da Vinci, Scritti Letterari, Bestiario, pag.42, Letteratura Italiana Enaudi.
(12) Georges Lapassade, Dallo sciamano al raver, Urra Edizioni.
(13) Georges Lapassade, op. cit.,

domenica 10 settembre 2017

Il Sogno Verde: Bernardo Trevisano (1406-1490) e la ricerca della Pietra Filosofale.


Pubblico uno stralcio dall'opera di un erudito ottocentesco, Isidoro Carini, un sacerdote, però paradossalmente positivista nell'approccio, cioè "Sulle scienze occulte nel medioevo e sul codice della famiglia Speciale". 
In esso ripercorre la vita di un noto alchimista italiano del medioevo, Bernardo di Trevisano (o anche Bernardo Trevisan) non senza un certo spirito canzonatorio e irriverente, tipico dei positivisti dell'epoca, che consideravano l'alchimia come una superstizione ed una forma d'ingenua proto-scienza. Concezione erronea, che ancora oggi sopravvive,  perché centrata sulla sola operatività al forno dell'alchimista, che ne era una solo l'aspetto esteriore.

Clavis XII, Opus medico - chymicum , Johan Mylius, 1678.


La storia di centomila alchimisti di quel tempo è press'a poco quella, che ci è descritta di Bernardo di Trevisano (1043 - 1490).
Costui fu un ricco conte italiano.
Innamorato dell'alchimia, ispiratosi agli arabi Geber e Rasis, nomi tanto famosi in quel tempo, comincia collo spendere tremila scudi per esperienze sulla conversione dei metalli.

Non riesce com'è naturale.

Allora si volge ai maestri Archelao e Rupescissam ma dopo quindici anni di continue prove, dopo spese di parecchie migliaia di scudi, non ha avuto la fortuna d'incontrarsi colla Pietra Filosofale.

In buon punto un chierico suo paesano gli dice, che maestro Errico confessore dell'Imperatore conoscea il secreto dei secreti (secretum secretorum) e possedea la pienezza assoluta del magistero.
Il Trevisano va in Germania, trova il gran dottore della scienza ermetica, e ne ottiene questa ricetta simile, ad un dipresso, alle centinaia che contiene il nostro ms. (1)
Piglia dieci marchi d'argento; mesci mercurio, olio d'ulivo, solfo; fondi a fuoco moderato; cuoci a bagnomaria, rimenando sempre; dopo due mesi secca il tutto in una storta di vetro coperta di creta; tieni il prodotto per tre settimane sulle ceneri calde; unisci piombo; fondi al crogiuolo e sottometti il prodotto alla raffinazione; vedrai i dieci marchi d'argento cresciuti di un terzo.

Ecco dunque bell'e trovato il mezzo di moltiplicare l'argento.

Il Trevisano eseguisce tutto scrupolosamente, opera, suda, aspetta;
ma che!
dopo un sì lungo procedimento, i dieci marchi d'argento non erano che quattro.
Credereste che si fosse disilluso?
Nient'affatto!
L'alchimista accusa la sua imperizia, non già l'ermetica scienza.

Si mette a percorrere Spagna, Inghilterra, Scozia, Germania, Olanda, Francia, Egitto, Siria, Persia, Grecia, sempre in cerca di maestri.

Già conta settantadue anni di età, si trova a Rodi, non ha più un obolo, esperienza e tentativi l'hanno proprio ridotto al verde, una sola cosa gli resta, una fede incrollabile nell'onnipotenza dell'alchimia.
Viene a sapere, che un religioso reputato in tutto il Levante è in possesso del grand'arcano, lo va trovare, malgrado la sua canizie gli si dichiara discepolo, studia spera attende ancora tre anni alla ricerca del magistero, ma in capo a questo tempo il maestro gli fa una rivelazione inattesa:
la frode è l'ultimo secreto della scienza ermetica.

Che cosa farà il conte trevisano? perderà a 75 anni l'illusioni di tutta la vita?
Non lo credette.

Gli ultimi sette anni che gli rimasero spese a scrivere varii trattati della scienza prediletta...

Bernardo da Treviso, detto anche Bernardo Trevisan.

L'esoterista François Jollivet Castelot, però ha un'opinione diversa dal Carini sul Trevisano, ma l'epilogo della sua storia è per lui lo stesso:


"Trevisano non fu che un alchimista exoterico, ma fu tale disinteressatamente, sicché è degno della stima universaleEra ricchissimo e profuse tutti i suoi beni nei crogioli per cercare la pietra filosofale. Ma, non potendola trovare da sé, ricorse a un cotal confessore di Federico III imperatore, in grido di possederla. N'ebbe una ricetta e gli parve toccare il punto col dito, ma eseguita appuntino, trovò l'argento diminuito nella storta. Non si scoraggia. Vecchio di settantadue anni va di luogo in luogo e capita a Rodi, dove delle molte sostanze non gli restava più un quattrino, sol gli restava la fede nell'alchimia. Si fa scolaro per tre anni di un frate, e seppe poi dal medesimo il segreto della scienza ermetica, che cioè: Natura contiene natura e natura si fa gioco di natura, il che significa che non è possibile accoppiare un cavallo con una balena... un metallo con una pianta..." (2)




Note:
(1) Con l'abbreviazione  "ms." s'intende manoscritto. Il Carini si riferisce al Codice Speciale, rinvenuto ai suoi tempi presso l'omonima nobile ed antica famiglia siciliana.
(2) François Jollivet Castellot, Storia dell'alchimia, parte II.

sabato 9 settembre 2017

UNA CATASTROFE ANNUNCIATA


Un pubblico e solenne congresso dei più reputati degli astrologi, cristiani, arabi e giudei, ebbe luogo nel 1179.
Vi fu predetto che, nel settembre 1186, una straordinaria congiunzione di pianeti addurrebbe un generale cataclisma per furia di tempeste.
E' superfluo aggiungere, che il temuto settembre giunse, passò; è nulla cadde in rovina neppure il credito dell'astrologia.
- Isidoro Carini, Sulle scienze occulte nel medio evo.., pag. 55, Stamperia Perino, Palermo, 1872.


Volta della sala del Mappamondo, Palazzo Farnese di Caprarola.