martedì 27 ottobre 2020

BREVI NOTIZIE STORICHE SULLA CONTRADA LAURA DI CAPACCIO PAESTUM

 



Quella che oggi chiamiamo contrada Laura ha una lunga storia di frequentazioni del suo territorio, ma come centro urbano è relativamente recente.

Una curiosità di molti è la particolarità del suo toponimo, che ricorda un bel nome femminile. 

In onomastica generalmente si individua la sua origine nella pianta dell'alloro, detto anche "lauro".

In toponomastica le cose si complicano, perchè non di rado i nomi dei luoghi (toponimi) sono il risultato di una loro evoluzione dovuta alla corruzione nel tempo di un "nome" più antico.

In passato ero propenso a credere che l'origine di questo toponimo fosse derivato da "laguna", che nella sua forma dialettale "launa" abbia dato origine a quello attuale, cioè  la Laura.

Oggi ho un convincimento diverso, fondato anche su base documentale.

Credo che l'origine del toponimo Laura sia in un altro ancora oggi esistente, ma che ha visto nel tempo la contrazione del territorio a cui anticamente dava il nome: il Gaudo.

Abbiamo visto in un passato post come anticamente il Gaudo dava il nome anche alla porta settentrionale della antica città di Paestum, oggi detta "Aurea".

L'origine è nella sua dizione popolare "lo Gauro", che, come abbiamo visto, per la porta nord di Paestum diventa "Aurea" e per la nota contrada capaccese diventa "Laura" (lo Gauro > lo Auro > l'Auro > Laura).

Conforto in tal senso lo abbiamo anche da numerose evidenze storiche, come ad esempio la descrizione nei documenti antichi sull'estensione della primitiva località "Gaudo", che appare in passato molto più estesa che ai nostri giorni.

Da un documento conservato presso l'Archivio di Stato di Napoli risalente al 1566 (1) apprendiamo che la località detta Gaudo:

"comincia de la porta del antica città di Pesto quale si dice proprio la porta del Gaudo et se camina abascio verso mari confinando con le mura de detta città ad mano sinistra con che si entra ad confinare con le terre de li  heredi de Pirro de' Vignali et Matteo Miglio de Capaccio dove se dice la Lupata e poi se volta verso Sele confinando alla parte verso mar con lo comprensorio de la Corte che se dice la palude de Cerzagallaro".

È evidente da tale descrizione che l'estensione della località "Gaudo" era anticamente assai più vasta e comprendeva anche sicuramente la zona sud della attuale contrada Laura, cosa che ci conforta nella nostra ipotesi sulla origine di questo toponimo.

Non abbiamo notizie certe di una presenza umana stabile nella zona Laura prima dell'800. Nelle diverse mappe che la rappresentavano è descritta come incolta e selvaggia. Sappiamo però che era frequentata almeno stagionalmente.

Ad esempio abbiamo nozione di “pagliai” costruiti occasionalmente per vari usi.

Un “pagliajo” nulla era che una capanna, costruita con materiali poveri come legno, frasche, stoppie e paglia, a forma quadrangolare o circolare (come quelle che spesso compaiono nelle vedute settecentesche di Paestum), abitazione degli umili (contadini,pastori, ecc.), ma anche con funzioni diverse come stalla per gli animali o ricovero per viaggiatori (2).

Di questi pagliai ne è rimasta memoria evidente proprio in un edonimo della Laura, cioè Via Pagliaio della Madonna, ma anche in documenti d'epoca, come la causa che vide contrapporsi alcuni marinai che avevano costruito un “pagliajo” sul lido del “demanio universale” (3) denominato Laura contro il Conte di Capaccio che gli aveva “estorto” il pagamento dei diritti di pesca su quel litorale che gli erano propri (4).

Ma la Laura con Codiglioni e Cerzagallara fu anche oggetto di una storica controversia, che durò molti decenni, tra l'allora Università di Capaccio, cioè l'attuale Comune, e gli ex feudatari di Capaccio, ossia i Doria.

Agli inizi dell'800 vi fu una grave crisi economica e sociale, che colpì tutto il Regno di Napoli, che a Capaccio fu aggravata dai costi dell'alloggiamento delle truppe francesi. Ciò determinò un forte indebitamento dell'Università, che non potendo gravare i cittadini con nuovi carichi fiscali, pensò di risolvere con un fitto di alcuni suoi demani: Laura, Codiglioni e Cerzagallara.

I Doria però non rispettarono l'accordo, realizzando piuttosto una vera e propria usurpazione di quei demani, che chiusero a “difese”, e che utilizzarono soprattutto per il pascolo brado delle loro mandrie di bufali.

La conclusione arrivò solo nell'aprile del 1866 con un compromesso tra il Comune e gli "usurpatori", che nel frattempo si erano moltiplicati, aggiungendosi nel novero anche gli esponenti delle famiglie di quella nascente borghesia agraria, che dominerà la Piana di Capaccio per più di un secolo sino alla riforma fondiaria. Tali accordi risultarono più vantaggiosi per questi ultimi che videro riconosciute parte di quanto avevano acquisito a danno del demanio pubblico. 

Il resto poté tornare nella piena disponibilità del Comune, permettendo all'ente di poterne usufruire pienamente così da poter realizzare le “quotizzazioni” di tali demani. Quotizzazioni iniziate a Capaccio sin dal 1850.

Con le quotizzazioni  i demani comunali coltivabili furone divisi in quote ed assegnate ai cittadini. Le terre in tal modo divise diventavano "proprietà libere dei cittadini” (5) dietro pagamento di un canone.

Ma a completare la svolta che permise lo sviluppo della località Laura furono le opere di bonifica volute dalle autorità borbonica. 

Nel 1855 è istituita l'Amministrazione delle Bonifiche di Paestum e l'anno seguente iniziano i lavori di bonifica con canali di drenaggio paralleli alla linea di costa che si immettono nel fiumarello che sfocia in località Ponte di Ferro. Furono così proscugati in dieci anni ben 1.399 ettari dalla foce del Sele alla Laura. 

Nei fondi agricoli così bonificati e lottizzati vengono avviate culture legate alle manifatture industriali del Regno: la robbia (da cui si ricavava un colorante per tessuti), il cotone (per le filande della Valle dell'Irno) ed il tabacco.


Le trasformazioni del territorio: mappa IGM 1871. Da notare i primi canali di bonifica (linee azzurre piccole), la ferrovia, le prime strade e le poche case sparse.




Le trasformazioni del territorio: mappa IGM del 1908.



La Laura comincia anche a popolarsi.

Pagliai, case coloniche e masserie fanno la loro comparsa stabilmente.

L'attuale Via Laura - Paestum, asse nevralgico e baricentrico del moderno borgo, comincia a delinearsi. Nell'Inventario dei Beni Comunali di Capaccio del 1912 è iscritta al numero 12 e provincializzata a fine anni 60 o inizio anni '70 a seguito della costruzione del ponte sul Sele (6), che la rende una dei principali assi viari che da Salerno vanno verso il sud della Provincia. Inevitabilmente questa strada diventa occasione ed opportunità di sviluppo di questa contrada come località di balneazione e di ricettività turistica.

Ma la vocazione turistica di questa contrada comincia ad emergere già nei primi anni sessanta.

Già 1961 Hainel Ingeborg in Schuhmann è titolare della prima storica struttura ricettiva della Laura:  la Pensione Shuhmann (7). Questa piccola struttura ricettiva sul mare avrà un'importanza fondamentale per il nascente turismo pestano. Sarà vettore di diffusione della conoscenza e promozione di Paestum anche come località balneare presso gli europei del nord, primi fra tutti tedeschi e svizzeri. I coniugi Shuhmann furono in tal senso pioneristici promotori del turismo straniero nelle nostre zone, quando questo non aveva ancora una connotazione di massa come oggi.

Altra struttura storica della Laura è l'Hotel Clorinda, aperto da Giovanni Di Sirio tra il 1962 ed il 1963 riadattando una masseria della seconda metà dell'ottocento, allora nota come “il Casino Rosso”, a causa del rosso dei suoi intonaci individuabile a grande distanza nell'allora spoglia piana pestana.

Negli anni che seguirono nacquero nuove attività commerciali e turistiche: alberghi, pensioni, campeggi e stabilimenti balneari, soprattutto negli anni settanta e nel decennio successivo.

Gli anni ottanta sono quelli della svolta in cui il settore turistico viene a qualificarsi come massivo, perdendo quello di qualità degli stranieri. La ristorazione diventa un affare con la banchettistica, facendo delle strutture pestane ed in particolare quelle della Laura le più ambite e ricercate della provincia. 

Malgrado la vocazione turistica e la funzione trainante nell'economia della nostra piana, la contrada, salvo episodici casi, non riceverà mai il dovuto interesse delle istituzioni, sviluppandosi caoticamente come luogo di seconde case per villeggianti, ma soprattutto senza un disegno o impianto che ne valorizzasse le potenzialità. Bastano un paio di esempi: l'abbandono della fascia costiera, con una Pineta trascurata e vittimizzata, vissuta più come un problema che come un'opportunità, ed un lungo mare, sempre auspicato e mai realizzato. Lo stesso arredo urbano della contrada e la sua estetica sono ben lontani dagli standard minimi di una località turistica.

Insomma il disordinato e brutto sviluppo della contrada è probabilmente espressione della mancanza di una idea di sviluppo ma soprattutto, per una contrada a vocazione turistica, di un'idea di turismo.


L'Hotel Ristorante "Clorinda' nel 1963.



Note:

(1) Relevi della Camera della Sommaria - 27/30 giugno 1566 - volume 226 dal titolo La Città di Capaccio antiqua disabitata cum Jurisdictione Jurium, tratto da Fausto Longo, Le mura di Paestum, pag. 20, Fondazione Paestum onlus - Pandemos s.r.l.,  2012.

(2) Come il “pagliajo” che sorgeva fino alla fine del settecento nei pressi del palazzo vescovile e descritto dal Delagardette nel suo “Les ruines de Paestum”.

(3) I demani universali, contrapposti ai demani baroni, erano quelli la cui titolarità era del populus ed il cui uso spettava individualmente e collettivamente ad ogni cittadino, tanto da derivarne il principio secondo cui ciascuno “sibi quoque jure privatim locis publicis uti potest”.

(4) In “Bullettino delle sentenze”, anno 1809, numeri 10 e 109.

(5) Decreto deÌl'8 giugno 1807.

(6) Fonte il prof. Paolo Paolino.

(7)  Nel 1961 risultano come strutture ricettive ricettive in Capaccio: l'Autostello A.C.I., in Via Giulietta, Paestum (II cat.); Olimpia di Sergio Alfonso, frazione Paestum, località Licinella (III cat.); Shuhmann di Hainel Ingeborg in Shuhmann, fraz. Paestum, località Lupò (III cat.); La Pineta, Via Torre, fraz. Paestum (IV cat.); Tesauro Giovanni, Via Torre, fraz. Paestum (IV cat.); Cucco - Santomauro Filomena, fraz. Pontebarizzo (Locanda); D'Anzilio di D'Anzilio Giuseppe, loc. Foce Sele (Loc.); Nettuno di Pisani Giuseppina, Via Licinella, fraz. Paestum (Loc.); Vairo di Vairo Giuseppina, fraz. Pontebarizzo. Da Supplemento straordinario della Gazzetta Ufficiale n. 169 dell' 11 luglio 1961, pag. 254.

Foto del quadrivio della Laura degli inizi anni '70 © Sergio Sica.


giovedì 15 ottobre 2020

PROFESSIONISTI E COMMERCIANTI NELLA CAPACCIO DEL 1899

 



Pubblico un estratto dall' "Annuario d'Italia: guida generale del Regno" in cui sono riportate succintamente notizie sulle diverse località italiane, comprese le attività commerciali e professionali. È un modo per sbirciare sulla Capaccio di 120 anni fa.


MANDAMENTO DI CAPACCIO


Comuni N.5. Abitanti 12.118. Tribunale, Ispez. forestale e Conservazione delle Ipoteche di Salerno. Ufficio di P. S. in Campagna. Agenzia delle Imposte in Roccadassiede. Uffizio di Registro in Capaccio.


CAPACCIO.


Settimo Capo Collegio Uninominale. 

Diocesi di Capaccio-Vallo. 

Dist. da Campagna (Capol. Circondario) km. 32,  Salerno, Capol. Prov. Napoli, sede della Corte d'Appello.


Abitanti 1011. 

Piccola città, a scirocco di Salerno distante dal Mediterraneo chil. 11. 

Corsi d'acqua. Il fiume Sele e Capo di Fiume. 

Prodotti. Olio, vino, biade, cotone, e pascoli. Rinomati latticini e meloni. 

Acque minerali. Alle falde del monte Calpazio havvi una sorgente solforosa, una ferruginosa ed una salina. 

Uff. postale, Uff. telegr. e Staz. ferr. locali, sulla linea Èboli Reggio. 

La vettura postale ha una corsa di andata e una di ritorno da Capaccio stazione a Piaggine Soprane. Ore di percorso 2 sino a Capaccio ed ore 9,30 per l'intero itinerario. 

Fiere. 11, 12, 13 giugno, 

Sindaco. Maida cav. Giovanni. Segretario. Immerso Giovanni.


Albergatori. Arenella Pietro – Sapere Carmine – Grippa Raimondo e Antonio. 

Calzature (Negoz.) Di Sirio Gaetano – Franco Giovanni – Matteo Francesco – Maffeo Vincenzo – Ragone Rattaele – Tafuri Antonio, 

Molini (Eserc.) Conte Matteo – Avallone ILorenzo – D'Alessio Gennaro fu cav. Pietro ditta (Sfarinato idraulico). 

Pizzicagnoli. Arenella Carmine – Marandino Ferdinando – Marandino Giovanni – Marandino Leopoldo – Nicodemo Filomena – Sapere Alfonso. 

Tessuti (Negoz.) Di Sirio Gaetano – Di Sirio Emidio – Marandino Ferdinando – Baratta Francesco. 

Trattorie (Eserc.) Arenelli Pietro – Crippa Raimondo.


PROFESSIONI.

Avvocati. Mollica Roberto – Tanza Fran. – Stabile Vincenzo – Grossi Francesco. 

Farmacisti. Chiefli Berardino – Longobardi Giuseppe. 

Medici-Chirurghi. Barlotti Giacomo – Rizzi Luigi. 

Notai. De Maria Nicola.


Dall'Annuario d'Italia: guida generale del Regno, anno XIV (1899), Bontempelli, Roma.

sabato 10 ottobre 2020

UN VIAGGIO A PAESTUM DI METÀ 800 TRA TRENO, CARROZZELLA E LA PAURA DEI BRIGANTI

 


Quella che segue è la mia traduzione di un articolo apparso sul Proceedings of the Society of Antiquaries of Scotland del 10 maggio, scritto da John Alexander Smith (1818-1883) del Royal College of Physicians of Edinburgh.

È estremamente interessante perché descrive il viaggio di turisti britannici da Napoli a Paestum a otto anni dall'annessione del Regno di Napoli al Regno d'Italia, quando benché nelle nostre zone la guerra ai “briganti” fosse ormai vinta, il pericolo di incontrarli in viaggio era ancora reale ed i gruppi di “turisti” erano per disposizione governativa scortati da guardie armate.

Siamo in epoca in cui il viaggio da Napoli a Paestum non è più fatto in barca o via terra esclusivamente in carrozza, ma anche parzialmente in treno.

Non manca poi la descrizione degli “affari” che si facevano all'ombra dei Templi di Paestum.

Abbiamo già detto della presenza di mendicanti che approfittavano della presenza dei benestanti visitatori di Paestum per chiedere “professionalmente” l'elemosina, ma vi era molto di più!

Ci narra Arthur John Strutt nel suo diario che giunto a Paestum nel maggio del 1838, dopo aver lasciato i bagagli in “una squallida casa di campagna”, che fungeva da locanda, dove il padrone faceva pagare a caro prezzo “una misera ospitalità”:

“Tirai fuori il mio album in uno stato di estasi.

Cominciai a lavorare, ma - ecco! - il mio entusiasmo vien soffocato sul nascere dalla disgustosa apparizione di un funzionario dal naso rincagnato, con un berretto lucido ed una giacca sul collo rosso.

Con tono autorevole, mi chiese se avevo avuto dal Governo il permesso di disegnare la "pianta", come egli si espresse, delle rovine.

Ahimè!

Di nessun permesso del genere avevo sentito parlare.

Fui obbligato a confessare, con vergogna ed umiliazione, che non ero in possesso del documento richiesto.

La consegna fu che mi venne severamente proibito di continuare a dipingere.

Scoprimmo però che la severità di quel tipo doveva meravigliosamente scomparire all'idea di una mancia.

Egli fu felicissimo di accettare tre denari e mezzo per farci visitare le cose più notevoli."



 

Inoltre lo scozzese John Alexander Smith nci informa dello scavo e vendita di reperti antichi alla luce del sole fra i Templi da parte dei locali almeno al tempo della sua visita. Anche se ricordo che nei primi anni settanta ancora vi era chi ai bordi di Via Tavernelle clandestinamente vendeva monete, cornaiole ed altro.

La notizia di questi traffici di reperti antichi potrebbe farci ipotizzare che nel periodo di visita dei Templi dello scozzese Smith, cioè con la fine dell'amministrazione borbonica e l'inizio di quella italiana, Paestum potrebbe aver avuto un momentaneo periodo di trascuratezza o di lassissmo da parte delle autorità preposte alla sua tutela. 

Ma leggiamo il resoconto del viaggio a Paestum dello Smith:

“All'inizio dell'aprile 1868 ebbi la fortuna di poter salire sul Vesuvio e vedere di notte la tremenda grandezza di un'eruzione; poi l'8 dello stesso mese ho avuto il piacere di visitare le magnifiche rovine dell'antica città di Paestum. Queste rovine sono considerate seconde per importanza solo a quelli di Atene ed i più antichi esempi di architettura classica in Italia. 

Una visita a Paestum ora si può fare senza alcuna difficoltà, prendendo la ferrovia da Napoli a Salerno, inviando da lì una carrozza alla stazione ferrovia di Battipaglia, che la mattina dopo raggiungerete con il primo treno, poi in carrozza a Paestum, e di nuovo a Battipaglia la sera, in tempo per prendere l'ultimo treno per Napoli.

Ormai il viaggio è anche quasi sgombro dal pericolo dei briganti: il governo italiano dispone che ciascun gruppo di visitatori si doti di una scorta di almeno due soldati a cavallo (armati di spada, carabina e revolver). 

Questa scorta, che abbiamo avuto nel villaggio di Battipaglia, ha attraversato con noi il fiume Sele, dove altri due armati di una baracca lì vicina li hanno sostituiti per poi accompagnarci sino a Paestum, dove ci hanno scortati da vicino attraverso le rovine, per poi lasciarci di nuovo al traghetto del Sele, venendo sostituiti dai precedenti soldati che sono tornati con noi a Battipaglia.

Durante la camminata tra le rovine una contadina mi ha offerto la testa di una piccola figura femminile in terracotta, o Venere, che aveva raccolta lì (esposto); e dopo oltrepassando parecchi contadini impegnati a scavare il terreno entro le mura, non lontano dai templi, uno di loro è venuto da me con alcune monete di bronzo che aveva trovato. 

La maggior parte di queste sono di relativamente poco interesse, tranne per il fatto di essere state trovate in quella località...” (Segue descrizione delle monete).



 


Immagini di fine 800 di turisti a Paestum.

1 - Turisti con guide locali ©Gaetano Paolino

2 - Turisti con piccolo porta bagagli © Sergio Sica

3 - Guide? © Gaetano Paolino

martedì 6 ottobre 2020

PORTA AUREA O PORTA GAUDO?

 



Perché una delle porte dell'antica Paestum è detta Aurea?


È il prof. Mario Mello a spiegarcelo:

"La denominazione di Gaudo della porta nord risale al XVII secolo.

Oggi quella porta viene comunemente detta Aurea, con aggettivo che, per via di un dotto fraintendimento della pronunzia dialettale, Gauro, è stato tratto dal medesimo toponimo".

Il toponimo "Gaudo" è per molti di noi collegato alle tombe preistoriche dell'analoga civiltà e alla via che costeggia tale sito archeologico (e dal quale deriva il nome dato a tale cultura antica).

Ma quale è l'origine di tale toponimo?

Deriva probabilmente dal longobardo "wald", cioè bosco o zona boscosa.

Curiosamente in un documento del 1567 della famiglia Doria d'Angri, cioè quella dei feudatari di Capaccio, la località Gaudo è descritto come "comprensorio di terre laboratorie", cioè intensamente coltivate, mentre dopo soli due secoli la ritroviamo denominata come "paduli di Gaudo", cioè come zona paludosa.

Questo ci indica come un territorio possa cambiare nel corso del tempo e come quindi parlando del passato non bisognerebbe dare mai nulla per scontato o acquisito definitivamente. Interessante diventa così lo studio della storia delle modificazioni di un territorio, cosa che avviene a volte per cause naturali, ma molto più spesso a causa dell'uomo.



Fig. 2: Porta Aurea in "Illustrazione  dei  dintorni  della Città di  Paestum, tav. 1, da Le  Ruins de  Paestum..., 1798."



Figura 1: J. P. Pequignot, Veduta di Pesto presa fuori dalle mura presso la Porta Aurea, 1805, incisione di Luigi Vocaturo.

(1) In M. Mello e Vincenzo Rubini, Ritorno a Capaccio.

I SARACENI E LA DISTRUZIONE DELLA ANTICA CITTÀ DI PAESTUM

 



La tradizione capaccese tramanda da secoli la leggenda della distruzione di Paestum per mano dei Saraceni della vicina Agropoli.

Leggenda che in realtà ha diverse versioni.

In quella narrata da Franco Bellelli, ad esempio, nell'articolo postato, i fatti avvengono in occasione di una processione dei pestani nelle campagne, che si sarebbe tenuta il 25 maggio per la celebrazione dell'ascensione, per il canonico Bamonte, invece, nelle sue "Antichità pestane", si sarebbe tenuta in occasione delle celebrazioni di San Marco Evangelista, il 25 aprile.

Vi sono però nelle diverse versioni dei punti in comune: quella che i Saraceni agropolesi mettono a ferro e fuoco è una città; i Pestani respingono più volte gli assalti dei Saraceni; questi riescono a prendere la città solo con l'inganno approfittando della assenza di gran parte dei suoi cittadini impegnati nella processione nelle campagne pestane.

Oggi sappiamo che la Pesto/Paestum del IX secolo non era più da qualche secolo una città, ma un villaggio centrato in età tardo antica essenzialmente intorno a quella che dovette essere la prima cattedrale pestana, cioè l'Athenaion, e quella, che secondo alcuni era allora solo una modesta cappella cimiteriale, cioè quella che è oggi la Chiesa dell'Annunziata. Nell'alto medioevo, dopo tutti i guasti seguiti alle invasioni barbariche, alla guerra gotica ed alla conquista longobarda, la situazione di quel "borgo" poteva non essere affatto migliorata.

È chiaro allora che gli abitanti di un piccolissimo villaggio non potevano efficacemente realizzare la propria difesa dalle mura dell'antica città, a meno che non si immaginano altre forme di difesa per quel villaggio.

Come c'è confusione di date, non solo tra i cronisti, ma anche tra gli storici passati e moderni su quando il sacco di Paestum sarebbe accaduto.

Il Bamonte dice nell'877 o nell'878, la cronaca cavense nelle due versioni del Muratori e del Pratilli nel 878, altri addirittura 10 anni più tardi se non addirittura nel secolo successivo.

La stessa cronaca cavese accenna ad un incursione saracena nel 778 che avrebbe vista devastata non solo la città di Capaccio Vecchia, ma anche quella detta di "Lucania".

Da chiarire che in età longobardo la Lucania fu sicuramente un "distretto", ma si discute se essa sia stata anche una città o un borgo.

È certo che in taluni casi se ne parli come una città, come nel caso della Cronaca cavese ("Saraceni Lucania expugnant"), ma determinare ex post a cosa ci si riferisse, sempre che gli scriventi del passato per essa intendessero sempre il medesimo abitato, diventa assai ostico.

Per alcuni si tratta di Paestum, per altri come il Mazziotti di un centro fortificato sul Monte Stella.

Resta comunque possibile, tenendo presente che le frequentazioni saracene delle nostra zone possano essersi realizzate ben prima della conquista di Agropoli dell'882, ma anche dopo la loro cacciata del 915, che tali date possano riferirsi ad episodi storicamente diversi, ma simili.

D'altra parte è difficile pensare che con la presenza e pressione costante dei Saraceni sulle nostre zone le stesse località non siano state attaccate più volte nel tempo.

È chiaro che la narrazione della presa e distruzione di una città di Paestum da parte saracena è leggendaria, probabilmente eco distorto di uno o più eventi reali, che passando di bocca in bocca, si sono fusi arricchendosi di particolari immaginari o perdendone altri. 

Resta comunque una "storia" parte del nostra eredità culturale e della nostra identità comunitaria.


Immagine: Archivio Pasquale Feo, estratto dal quotidiano "Roma" del 18 novembre 1947.

lunedì 5 ottobre 2020

IL MISTERO DELLA TORRE KERNOT A FOCE SELE.

 



Alla foce del Sele vi sono due torri.

Una molto probabilmente fu costruita nel XVI secolo in funzione difensiva e di avvistamento per volontà dei viceré spagnoli nell'ambito di un sistema di guardia che andava da Salerno ad Agropoli.
Essa è ed era denominata come “Torre del Sele” in tutti i documenti antichi e le rappresentazioni cartografiche dalla sua edificazione ad oggi.

L'altra, detta Kernot, è un piccolo mistero.
Non si sa quasi nulla. Non compare in alcun documento antico, cosa che ha spinto gli studiosi ad interrogarsi sulla sua origine e funzione.

La prima notizia che attesta con certezza l'esistenza della torre di Kernot è quella che la indica come punto topografico dal 1861.
L'assenza di qualsiasi informazione precedente ci indica con molta probabilità che essa è moderna e non antica e la sua costruzione collocabile approssimativamente dopo la prima metà dell'ottocento.
Anche l'analisi degli elementi costruttivi della torre ne indicano l'estraneità al sistema di torri di guardia voluto dai viceré spagnoli.
Pare infatti che subisca nelle sue forme la suggestione “romantica” della vicina ed antica Torre del Sele, ma nei suoi elementi e caratteristiche costruttive sono evidenti differenze non da poco.
Di certo se avesse avuto, come le altre sulla costa, una funzione “militare” non sarebbe stata edificata proprio con quegli aspetti ed elementi “architettonici” che la caratterizzano differenziandola. Cosa che ne suggerisce una funzione ben diversa da quelle antiche.

Altra notizia certa è che nel 1853 il Comune di Capaccio cede i diritti in enfiteusi del luogo dove sorge l'omonima Torre con altri beni demaniali limitrofi a Giuseppe Kernot, nell'ambito della ripartizione dei demani comunali di Capaccio che iniziarono nel decennio 1850/1860. 

Giuseppe Kernot era membro di una famiglia “napoletana” di origini irlandesi, nota perché titolare già nell'ottocento di una “farmacia britannica” con sede in Via San Carlo, tutt'ora esistente.

È quindi evidente che la costruzione di questa torre dovette avvenire tra la data della concessione dell'enfiteusi a Kernot, cioè il 1853, e quella, il 1861, in cui fu fissato il chiodo del punto topografico sul terrazzo della torre.

La sua funzione probabilmente decorativa e rispondente a quella della tradizione locale che la volle edificata da cacciatori quale rifugio.

La proprietà della Torre di Kernot nel 1930 passerà alla famiglia D'Anzilio, quindi 1960 a quella Uccello ed infine nel 1970 a quella Cocchia.

Mistero svelato?

Foto storica ©Massimo Caramante
Foto 2 e 3 ©Sonia Mutalipassi


sabato 3 ottobre 2020

LA CAPACCIO DELL'OTTOCENTO, LE TASSE E LE USURPAZIONI DEL DEMANIO.

 



Sembra che il rapporto dei Capacciopestani con le "tasse" sia stato sempre conflittuale, come quello col demanio pubblico anche nel passato caratterizzato da abusi ed usurpazioni.

Così il Comune di Capaccio in esecuzione di un decreto reale del dicembre 1806 fu invitato a costituire un fondo per supplire ai propri bisogni.

I Decurioni (gli amministratori comunali del tempo) deliberarono quindi una "imposizione territoriale" di grana 4 ad oncia su chiunque possedesse fondi nel territorio comunale: abitante, straniero, luoghi pii, la chiesa parrocchiale e la mensa vescovile. Inevitabilmente molte furono le lamentele rivolte all'Intendente (una sorta di prefetto ed amministratore provinciale del tempo). Tra queste, particolare quella dei procuratori delle diverse chiese e cappelle, in cui si criticava l' "esito" del Comune (il bilancio consuntivo), in particolare alcune voci di spesa.

I procuratori si lamentavano che nelle spese "occasionali", il Comune vi iscrivesse l'acconcio di strade, "che nella Capaccio diruta e deserta" non erano molte (evidentemente quella della viabilità è un problema storico e cronico del nostro paese se ancora oggi ce ne si lamenta) e le spese per "le scorte per i Francesi", che a loro parere non aveva ragion d'essere, tanto da aggiungere: "quanto mai i Francesi hanno bisogno di scorte?"

In realtà le spese vi furono a causa della continua presenza di truppe e del Capo dipartimentale del Cilento che erano mantenuti a spese dell'ente, provocando un indebitamento del Comune per una cifra enorme per l'epoca di ben 5036 ducati.

Il problema si pensò di risolverlo con un fitto trentennale all'ex feudatario di Capaccio, il Principe Doria d'Angri, delle tre "difese" di Laura, Cerza Gallara e Codiglioni.

Ma il principe successivamente venne meno all'accordo realizzando invece con altri una vera e propria annessione di quei fondi nelle proprie proprietà private aprendo così una controversia giudiziaria della durata di ben 37 anni. 

Controversia difficile e stremante per i cittadini e gli amministratori comunali dell'epoca, tanto che il 18 settembre 1861 il sindaco Ernesto Ricci implorava con una sua lettera il commissario demaniale di far presto nel risolvere il caso, che aveva "stremato" la volontà di resistenza dei decurioni, di fronte agli astuti maneggi del Principe d'Angri e degli altri "usurpatori" del pubblico demanio.

La conclusione arrivò solo nell'aprile del1866 con un compromesso tra il Comune e gli "usurpatori", che risultò più vantaggioso per questi ultimi che videro riconosciute parte di quanto avevano acquisito a danno del demanio pubblico. Il resto poté tornare nella piena disponibilità del Comune.

Ma imporre nuove tasse o inasprire quelle esistenti non era cosa facile per gli amministratori comunali, cosa che poteva avere risvolti non piacevoli per costoro.

Cosi l'Intende nel 1811, per fare rispettare la legge ai recalcitranti amministratori comunali capaccesi che non volevano imporre la "gabella" per quell'anno ad una popolazione già provata da diverse congiunture economiche sfavorevoli, mise in casa di ciascun amministratore (con relativo obbligo di vitto ed alloggio a loro carico) due gendarmi fino a che non avessero adempiuto al loro dovere.

Certe cose non cambiano mai, altre invece ci stupiscono.

La "Difesa di Cerzagallara" in una tavola conservata presso l'ASS.



Immagini: piante "geometriche" della Piana di Pesto.

STORIE INCREDIBILI E ASSAI CURIOSE TRA AGROPOLI ED EBOLI IN UNA NARRAZIONE DEL 600.



Tre storie assai curiose di inizio 600, che al tempo sembrarono inspiegabili e miracolose. Tre misteri che, forse, oggi con un po' di malizia potremmo spiegarci.


Scipione Mazzella, erudito e storico del XVI secolo, in una sua opera "Descrittione del Regno di Napoli…" del 1601, ci riferisce di fatti particolarmente curiosi, e direi incredibili, che sarebbero accaduti ad Eboli e nella vicina Agropoli.

Su Agropoli scrive:

"Ma lasciati i luoghi mediterranei, e camminando per il lido della ruinata Pesto trovasi Agropoli dove s'afferma, per mollitie d'aere, che passando le donne il duodicesimo anno, sono simili alle Cipriote, cioè che non si ritrovano più vergini”.

 Ma è ad Eboli che le storie narrate si fanno davvero incredibili:

"Riferiscono gravi autori, che nel tempo che Giovanna d'Angiò prima di questo nome reina di Napoli, prese il Scettro del Regno, una donna d'Evoli havendo partorito un figliolo diventò maschio. 

Raccontasi anco che nell'anno 1460 nella medesima città una femmina chiamata Emilia meritata ad un' Antonio Spensa, dopo essere stata dodici anni col detto suo marito diventò huomo, il Pontano che la conobbe testibe testifica, che ella testé esercitò dapoi gli uffici da huomo, e che di più prese moglie, e che piangendo la dote, per commandamento del Re Ferdinando, il Giodice costrinse il dett'Antonio a rendergliela.”


Estratti dall'opera di Scipione Mazzella, “Descrittione del regno di Napoli ...”, Prima Parte, pag. 79 (Agropoli), pag. 77 e 78 (Eboli), 1601 

"L'albero dei peni", illustrazione tratta dal “Roman de la Rose” di Jeanne de Montbaston (Paris, Bibliothèque nationale de France,  MS Fr. 25526), XIV sec..