lunedì 11 dicembre 2017

I CAVALIERI DELL'ORDINE DI SAN GIOVANNI DI GERUSALEMME A CAPACCIO PAESTUM


L’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, oggi Sovrano Militare Ordine di Malta, ha una storia antica e strettamente connessa alle nostre terre. Fu fondato, come Ordine dei Cavalieri Ospitalieri, da un monaco salernitano originario di Scala, in Costiera Amalfitana, Gerardo Sasso, che ne fu anche il primo Gran Maestro.

Non ne racconterò la grande storia e neanche della fondazione ma mi limiterò a indicare gli stretti legami che l’Ordine ebbe anche con il Cilento e la stessa Capaccio.

I possedimenti d’occidente dell’ordine giovannita erano organizzati in commende o precettorie, o più genericamente in domus. Le precettorie erano raggruppate in priorati che, nel XIV secolo, furono riuniti in Lingue; in tale sistema ogni casa, con modalità di organizzazione e divisione internazionale del lavoro, doveva versare al priore di riferimento la quota di responsiones da far confluire nel Tesoro comune del Convento principale, per contribuire alle necessità dell’Ordine e finanziare missioni ed operazioni.

L’Ordine di San Giovanni nel territorio dell’odierna Campania ebbe un cospicuo numero di fondazioni e possedimenti alle dipendenze dalla sede priorale di Capua, che era uno dei due priorati assieme a Barletta dell’Italia meridionale.

I documenti d’epoca ci indicano come anche il Cilento e Vallo di Diano furono sede di un discreto numero di domus e possedimenti dell’Ordine.

Una delle principali fonti a cui poter attingere è l’inchiesta sul patrimonio degli Ospedalieri voluta da papa Gregorio XI nel 1373 per riformarne l’ordine e per determinare il possibile contributo in  uomini e risorse di questo al fine dell’organizzazione di una possibile nuova crociata.

Tra le tante domus  censite, quelle per noi più interessanti al fine della nostra piccola ricerca sono quella detta Domus Sancti Cesarii, cioè San Cesario di Capaccio, oggi nel territorio di Albanella, la Domus Caratelli, la Domus Altavillae. (1)

Il più antico riferimento è tratto da un documento della cancelleria angioina del 9 luglio 1269 e riguarda S. Cesario di Capaccio ed Eboli, allora dipendenti dall’ospedale di S. Giovanni Gerosolimitano di Salerno: la prima era allora definita “grangia seu domus”, il secondo “hospitalis”, ma entrambe dovettero ben presto svincolarsi dalla precettoria salernitana, se nel 1373 erano considerate domus a sé.

La Domus Caratelli (2),  o meglio di San Pantaleone, aveva sede nell’omonimo casale nelle pertinenze di Capaccio.

Allo “stato” non sappiamo quando queste “domus” (Caratelli, San Cesario ed Altavilla) siano nate, sappiamo però che numerosi beni e pertinenze dell’Abbazia di Cava passarono ai due priorati giovanniti di Capua e Barletta, come non sappiamo neanche quando cessarono di esistere.  Dal Catasto Murattiano sappiamo però che numerose proprietà della “Commenda di San Giovanni”, compreso un mulino in Capo di Fiume, nel 1816 passeranno nella disponibilità  dell'Amministrazione dei Beni Riservati a S. M.



Nel 1269 Re Carlo d’Angio accogliendo una richiesta di fra Guglielmo de Suria, vicepriore di Capua, autorizzava i Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme dell’Ospitale di Salerno a far arrivare dalle domus di Eboli e San Cesareo di Capaccio frumento ed orzo per l’assistenza degli stessi ospitalieri salernitani, ma anche dei poveri della città, esentandoli dal pagamento di dazi ed altre tasse. (3)

E’ l’ennesima testimonianza documentaria di come i traffici commerciali dalla parte meridionale della Piana del Sele verso la città di Salerno (ma anche Napoli) avvenissero sin dall’alto medioevo principalmente attraverso rotte marittime. A quell’epoca le merci potevano partire da Turris Paesti (Torre di Paestum) o dal porticciolo sul fiume Sele in località Mercatello. Porto e casale possesso dell’Abazia di Cava, parte del patrimonio di quella Cappella de Sancti Nicolai de Capite Fluminis, in Casavetere di Capaccio (cioè Capo di Fiume), costituito dai conti longobardi discendenti di Guaimaro III, Principe di Salerno, che fecero proprio dall’antica città di Caputaquis, il centro dei loro interessi patrimoniali. Qui la chiesa dedicata a Sancta Maria et Sancti Nicolai de Mercatello, localizzata poco più a monte del Barizzo, era all’epoca il centro di una comunità che era dedita all’agricoltura, all’allevamento e al commercio e da qui probabilmente partirono i carichi di grano, orzo ed altri prodotti verso l’Ospitale di Salerno.

Il possesso dell’ordine giovannita in finibus caputaquis, cioè Sanctus Cesareus, è definito nel documento del 1269 come “grangiam seu domum”, condizione propria anche dell’altra domus nel casale di Carratelli, sempre nelle pertinenze di Capaccio. 

Le grangie erano “fattorie”, un’unita funzionale tipica dell’economia degli ordini religiosi, quali quelli della grande famiglia benedettina. Spesso la presenza di casali assicurava la mano d’opera necessaria per la coltivazione dei campi, l’allevamento degli animali e tutte quelle attività di cui la grangia poteva necessitare. Definirle però “fattorie” sarebbe riduttivo. Piuttosto dovremmo considerarle come vere e proprie “imprese” intorno a cui orbitavano una serie di possedimenti costituiti non solo da terreni, edifici, infrastrutture varie (ad esempio granai, mulini, frantoi, ecc.) ed animali ma anche “anime”. 

Questo spiega il perché era interesse dell’Ordine degli Ospitalieri che gli abitanti del casale di Caretelli fossero esentati dal pagamento dagli onero fiscali e da qui la richiesta del 23 gennaio 1305 del Priore di Capua a Re Carlo d’Angiò. Il casale, come descrive il documento, era stato oggetto di devastazione e stragi nella recente Guerra del Vespro ed era quasi spopolato ed i suoi abitanti estremamente impoveriti. (4) (5)

Non sappiamo esattamente quali tipi di culture fossero praticate nelle grangie capaccesi, salvo quella del grano e dell’orzo, come ci suggerisce il documento del 1269. Sappiamo però dagli atti del Codex Diplomaticus Cavensis quali fossero quelle praticate in zona. 

Oltre a quelle del grano e dell’orzo, che erano predominanti, si coltivava anche il sorgo, l’avena ed il riso. Diffusa la coltivazione della vite sia in collina che nella Piana. 

Un atto del 1029, sempre del C.D.C., ci rende l’idea di quelli che erano gli animali generalmente allevati.  I Conti Giaquinto, Landone e Disigio, assegnano alla loro Chiesa di S. Maria e S. Nicola a Mercatello giumente, vacche, buoi, vitelli, scrofe, capre ed un cavallo.

I bufali, pur diffusi, non sono ancora i dominatori assoluti della Piana. La loro prima menzione documentale è del 1052 ed è legata ai pagamenti in natura che il monastero basiliano di “Sancta Beneri de locum Cornito” (cioè l’attuale Santa Venere) doveva alla Chiesa di Santa Sofia in Salerno. Sempre tra i beni da conferirsi alla Chiesa di S. Sofia vi sono anche il miele e la cera, che testimoniano la diffusione dell’apicultura in zona.

Erano presenti anche numerose “piscatorie”, tra cui quella nelle acque stagnanti della sinistra del Sele, la cui diffusione è sopravvissuta nel toponimo “Gueglia”. Nel 1018, poi, i conti Giaquinto, Landone e Disigio concedono a Johannes Atrianensis (cioè un amalfitano di Atrani) in “unum lagum nostrum qui dicitur Paulinum (6), cum omnia pertinentia sua” il diritto di “piscare”.


Note:
(1) Le altre sono:  la domus Ebuli (Eboli), domus Sancti Serratelli, domus Dyano (Teggiano), domus Lauro (Laurino?), domus Cruce, domus Nove (Novi Velia), domus Corneti (Corleto), domus Rocche Gloriose (Roccagloriosa), domus Polcacastri (Policastro), domus Cuculi (Cuccaro), domus Turturelle (Tortorella), domus Padule (Padula), domus Bulcini (Buccino), domus Sale (Sala), domus Polle (Polla), domus Cucuzi, domus Aulecte (Auletta). Tutte incluse nelle allora diocesi di Salerno, di Capaccio, di Policastro e di Conza. 
(2) Nei vari documenti compare anche come “Carracelli” o “Carratelli”.
(3) Il documento citato è riportato in J. Delaville Le Roulx, Cartulaire general de l’Ordre des Hospitaliers de S. Jean de Jerusalem (1301-1310), III, n. 3351.
(4) E’ l’ennesima testimonianza di come la Guerra del Vespro abbia fortemente inciso sia sulla demografia che sull’economia della Piana del Sele e del vicino Cilento. Infatti sin dal 1291  i sovrani angioini dovettero esentare dalla colletta di quell’anno ben 33 terre del Cilento. Anzi nel successivo periodo di crisi del secolo XIV scompariranno altrettanti centri abitati sui 53 che nel Cilento erano in possesso della Badia di Cava dei Tirreni. 
(5) Reassunto de’ Diplomi esistenti nell’Archivio della Regia Zecca, ff 44r-46r.
(6) Il Lago Paolino è quello che più tardi sarà detto Sele Morto.

UNA RIFLESSIONE SUI RIMBORSI PER L'ESONDAZIONE DEL SELE DEL 2015.

Piana del Sele alluvionata (Foto da Ondanews)


Inutile girarci attorno.

Vi è un'oggettiva responsabilità politica dell'amministrazione Voza, la quale come garante dei cittadini rispetto la burocrazia comunale, avrebbe dovuto vigilare sull'operato dei responsabili del procedimento di trasmissione dell'istanze di rimborso per l'esondazione del Sele 2015.

Istanze trasmesse con 16 mesi di ritardo!

Peggio, non ha dato per tempo la notizia dell'archiviazione delle pratiche di risarcimento da parte della Regione Campania.

Bene ha fatto l'amministrazione comunale a denunciare l'accaduto ed ad individuare le responsabilità politiche. Male ha fatto quando non ha anche chiarito quali i profili di responsabilità di chi nall'ambito del procedimento, che ricordo è condotto in autonomia dai funzionari responsabili, avrebbe dovuto chiuderlo entro il limite di 10 giorni come stabilito dalla Delibera di Giunta Regionale n. 410 del 2010.

Nè si è chiarito quali i problemi che hanno causato il clamoroso ritardo.

Credo che i cittadini abbiano il diritto di conoscere quali siano stati i "problemi tecnici" che hanno influito sulla pessima performance della macchina burocratica comunale.

Ma è anche da sottolineare che vi è una responsabilità oggettiva della Regione Campania, che fissa in 10 giorni il limite di trasmissione delle pratiche di risarcimento, come se in tale lasso di tempo gli alluvionati e le stesse autorità locali non avessero da pensare a ben altro in uno stato di emergenza perdurante. (1)

A chiarire poi il senso della delibera è che si stabilisce che chi procede alla richiesta di risarcimento rinuncia alla procedura giudiziale di risarcimento.

Insomma un modo per la Regione per ridurre le responsabilità che la legge le imputa in questi casi.

La riprova che la scelta di non pagare è di natura politica (potendosi una delibera di giunta anche modificare) è che nel 2010 e nel 2014 la regione ha accettato le richieste di risarcimento malgrado alcune presunte irregolarità.

Nel 2010 le operazioni furono condotte per tempo (per merito del dott. Antonio Zerenga) ma con una modulistica diversa da quella indicata in delibera.

A questo punto se è vero che la Regione sta proponendo la liquidazione del danno calcolato sull'8% del 50% del danno stimato (cioè su un danno di 10.000 euro subito, mi si calcola il danno sul 50%, cioè su 5.000 euro per un importo pare all'8%, cioè 400 euro!) le cose diventano ancora più chiare.

Insomma a Napoli hanno "concreato" il problema ed oggi spetta a loro risolverlo per via bonaria, evitando che i cittadini debbano adire per altre vie.

Capisco che gli attuali amministratori sollevino le responsabilità della passata amministrazione comunale, un po' meno quando non indicano anche quelle della Regione, arrivando paradossalmente ad apparire come quelli che invece di prendere le parti dei propri amministrati, legittimano l'operato "iniquo" della Regione.

Questa però è un'amministrazione che ha un'approccio più pratico e fattivo della precedente.

Per questo spero che si faccia tramite degli interessi degli alluvionati con la giunta regionale, al di là degli incontri ricognitivi, che pur ci sono già stati, e quindi promotrice di una soluzione bonaria del problema ed in caso che la Regione persista nel suo atteggiamento che l'amministrazione comunale capaccese si faccia essa coordinatrice ed ausilio di una "azione collettiva" degli alluvionati del 2014 (per i presunti risarcimenti ridicoli proposti) e per quelli del 2015 (per l'archiviazione) presso il Tribunale delle acque.

Da quel che ho capito da talune dichiarazione sui social di esponenti dell'amministrazione comunale, questa "non abbandonerà" gli alluvionati, come pare abbia fatto poi la precedente a se stessi, ma sembra che si stia attivando a tutti i livelli perché si arrivi ad una soluzione confacente agli interessi dei nostri concittadini alluvionati.

Se son rose fioriranno.


Note:

(1) Parrebbe però che il limite 10 giorni fissato dal punto 7 del DGR 410/2004 si riferirebbe alla presentazione della domanda presso il Comune. Interpretazione che sarebbe confortata dalla lettura del punto 10. Resta però fermo che l'interpretazione della norma al momento vincolante è quella della Regione, salvo un pronunciamento in senso diverso di un'organo di giurisdizionale.